Quando si propone (anche in ambienti ecologisti) la via della vita in e della campagna come alternativa centrale, autentica e possibile al sistema di vita dominante (con le conseguenze che gia’ abbiamo davanti agli occhi e quelle che probabilmente avremo a breve) spesso si assiste a polemiche piuttosto accese fra chi difende quest’idea con toni che a volte sconfinano anche nel romantico-ideologico-utopista e chi sembra rifiutare cio’ che gli sembra un vano sogno impossibile respingendolo con energia degna di fanatici dello sviluppismo; energia che pare quella di chi voglia allontanare da se’ il pericolo di poterci credere davvero ad un tale sogno.
E’ chiaro che si tratta di un argomento che stimola le coscienze perche’ e’ in fondo abbastanza evidente che, se diffusa su percentuali consistenti della popolazione, sarebbe forse l’unica scelta che davvero potrebbe dare una svolta radicale in senso eco(ed umano-)sostenibile alla nostra societa’ ed al suo futuro. Quantomeno l’unica che e’ direttamente alla portata delle nostre decisioni come comuni mortali, mentre ogni tipo di programma politico (per inaspettatamente coraggioso che fosse - e non se ne vede comunque traccia) avrebbe bisogno in ogni caso di tempi e condizioni molto complicate nelle quali possiamo solo sperare, ma purtroppo sempre meno credere, in una economia globale che ha ormai bisogno di crescere continuamente anche solo per sopravvivere.
D’altra parte un basilare principio di realta’ non puo’ non farci riconoscere che in tutto quell’insieme di eventi e trasformazioni avvenuti negli ultimi due secoli, che chiamiamo genericamente “progresso”, c’e’ anche molto di positivo se guardiamo a come era prima la condizione umana in molti suoi aspetti, e dunque una scelta in cosi’ radicale rottura con questa tendenza storica come quella di andare a vivere in campagna, chiamandosi fuori da tutto cio’, puo’ sembrare inappropriata perche’ non terrebbe conto della realta’ delle cose.
Questo e’ comprensibile. Ma che si rilegga in chiave radicalmente critica la modernita’, fin nei suoi presupposti, e che a questa critica se ne vogliano far seguire le conseguenze pratiche, non deve necessariamente significare che si pensi di poter fare come se tutto cio’ che e’ avvenuto dal tempo delle candele, dei carretti, delle fattucchiere e delle scomuniche non ci sia stato ne’ ci sarebbe dovuto essere. E’ sorprendente come in un’epoca in cui sembra trionfare l’idea di liberta’, specialmente di pensiero, si rimanga cosi’ impigliati nell’automatismo di credere nell’alternativa netta “o modello sviluppo-consumista o ritorno al medioevo sotto tutti gli aspetti”. Purtroppo succede pure che anche chi pretende a questo punto di preferire la seconda alternativa finisca per credere a questo bivio mal posto. Non c’e’ questo bivio: indietro nella Storia non si torna, si va solo avanti, anche se non sta scritto da nessuna parte che si vada verso qualcosa.
Per questo motivo non possiamo neanche illuderci che una linea di tendenza storica vada comunque verso il meglio solo perche’ a lungo la si e’ chiamata “progresso”, neanche se in parte e fino ad un certo punto lo si e’ potuto fare con buone ragioni. Se determinate trasformazioni sono avvenute ed hanno avuto il sostegno sentito e partecipe di moltissime persone vuol dire che ce ne erano i motivi. Ce ne erano i presupposti e se ne sentiva il bisogno, cosi’ che quando si e’ presentata una via possibile e comprensibile che rispondeva alle esigenze molti l’hanno seguita, pur se cio’ comportava delle rotture e delle notevoli difficolta’ . E’ miope e limitato pensare semplicisticamente in termini di giusto e sbagliato: esistono piuttosto i percorsi, in cui ci sono passaggi anche necessari, inevitabili. Invece di discutere in termini di andare avanti (avanti in che senso?) o tornare indietro (indietro dove?) sarebbe piu’ sensato riconoscere che cio’ che ci ha portato fino a qui aveva ragione di essere, altrimenti non saremmo dove siamo, ma siamo al punto di poter e dover prendere una strada diversa. Qui sta il bivio: nell’andare avanti in un altro modo grazie all’essere arrivati fino a qui con tutti gli errori che ora possiamo vedere ed a cui possiamo porre rimedio.
La Modernita’, la Scienza e la Tecnologia ci hanno affrancato da superstizioni, fame, malattie, fatalismo….; ci hanno portato a credere a cieche ideologie iperrazionaliste, a vederne le conseguenze e poi a non crederci piu’; a riconoscerci artefici della Storia e del nostro destino sostituendoci a Dio in questo ruolo e a ritrovarci ora in balia di forze economiche incontrollabili e impersonali che muovono questa “Storia” e noi con essa senza che ce ne rimanga alcun significativo controllo salvo la versione “realistica” odierna dell’antica devozione nel ripeterci che (pero’) e’ questo che ci da’ il pane ecc.. (soprattutto eccetera, perche’ se si trattasse del pane e del necessario basterebbe molto meno e ci rimarrebbe tempo anche per un po’ di vita come esseri umani); ci dovrebbero aver dato la capacita’ di vedere i fatti come processi e gli opposti come fasi complementari e successive.
Purtroppo la forma mentale occidentale, concettuale, astrattista, tutta legata alla dimensione del linguaggio, tende a mettere sempre le cose in contrapposizione: per questo la nostra storia si compone di movimenti politico culturali che impiegano enormi energie a combattersi ed estremizzare ognuna le proprie posizioni, a non comprendere l’aspetto di realta’ che c’e’ in quelle opposte e, in definitiva, sempre ad andare un po’ troppo in un senso, in modo che poi la cultura che avra’ successo…..successivamente (appunto si dice cosi’)….dovra’ recuperare tanti errori da finire per andar troppo nel senso opposto in modo da generare movimenti di segno opposto e cosi’ via.
E’ grazie al percorso anche distruttivo e consumistico, e’ grazie agli errori fatti ed alla capacita’ di comprenderli insieme a quanto di buono si puo’ conservare che oggi potremmo voler fare a meno di cio’ di cui non abbiamo bisogno. E’ grazie a questa esperienza che possiamo immaginare altri percorsi per cui non necessariamente tutti su questa Terra debbano ripetere gli stessi errori per capire le stesse cose. E’ grazie alla confusione del superfluo che poi possiamo fermarci all’essenziale.
Prendere concretamente una direzione di vita sostenibile, non consumistica, di non collaborazione col sistema distruttivo, di autoproduzione (e come potrebbe essere altro se non con la base di indipendenza economica ed esistenziale che la campagna puo’ dare?) non e’ un tornare indietro, non e’ un misconoscere la realta’ della Storia e del progresso (quel che c’e’ di vero in questo - e non e’ poco), ma e’ confutarne la mitologia, confutare gli aut-aut pseudorealisti e soprattutto non farsi incastrare dall’abitudine a trasformare sempre tutto in materiale dialettico-polemico. Non si puo’ sapere e definire la giustezza a livello generale o di tendenza storica di un’idea senza metterla in pratica, non lo si puo’ fare senza aver lavorato nella propria vita per aprirgli una strada, una possibilita’. Non si puo’ neanche sapere di cosa si stia parlando se non si accetta di scendere nell’esperienza anche se questo modifichera’ alcune delle nostre visioni.
Ed infine non si puo’, proprio perche’ siamo nella post-modernita’, non dare valore centrale alla nostra vita individuale giocata giorno per giorno, anche senza necessita’ di uno schema teorico a tutto tondo, come particella elementare di quel flusso di massa che chiamiamo “Storia”, che, ricordiamoci, possiamo davvero definire e conoscere solo dopo, guardandoci indietro. Mentre le analisi storiche le faranno gli intellettuali a posteriori, la “Storia” la facciamo oggi con le nostre vite. E non si tratta di agire in base ad una concezione lineare-progressiva piuttosto che circolare-statica della Storia: queste anche sono definizioni che appartengono all’ex-post e che sono soggette anch’esse alle mode e alle fasi culturali. Si tratta invece, concretamente e semplicemente, di capire cio’ che va fatto, data la situazione che ci si trova a vivere, non solo immaginandosi elemento separato, ma riconoscendosi parte del Tutto, e farlo, a partire da se’.
Per questo io credo che la scelta di andare a vivere in campagna, di trovare qui un’alternativa autentica e possibile, e’ una scelta oggi non meno attuale e legittima storicamente almeno di qualsiasi altra, se non, a ben vedere, quella davvero appropriata ai tempi, che richiedono svolte nette e fattive che non possono calare dall’alto ma venire dalla responsabilita’ di ognuno, perche’ dalla responsabilita’ di ognuno si riproduce ogni giorno questo “mostro impersonale” al quale abbiamo delegato (da ex- forse piu’ che da post- moderni) il nostro destino e la realizzazione del nostro posto nel mondo, in cambio di una limitata gamma di ripetitive e sempre piu’ solitarie ” liberta’ ” quotidiane.
di Sergio Cabras
28 gennaio 2009
Sulla vita in campagna
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