30 gennaio 2009

La vera causa delle malattie



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All’inizio dell’800 Isaac Jennings, Dottore in Medicina, iniziò una rivoluzione silenziosa nel campo della sanità quando
si accorse che semplicemente cambiando il proprio stile di vita si potevano così ottenere risultati eccellenti...

All’inizio dell’800 Isaac Jennings, Dottore in Medicina, iniziò una rivoluzione silenziosa nel campo della sanità quando si accorse che semplicemente cambiando il proprio stile di vita si potevano così ottenere risultati eccellenti...

Il Dr. Jennings, dopo aver esercitato come medico tradizionale per 20 anni senza ottenere alcun risultato significativo, un giorno d’estate del 1815 durante un’epidemia si ritrovò senza medicinali, e non poté quindi prescrivere alcun trattamento ai pazienti che si erano a lui con ogni genere di sintomo. Tutto quello che disse loro fu di andare a casa, riposare e bere molti liquidi.

E cosa accadde? … Queste persone guarirono, senza alcun farmaco!

Così dopo aver praticato per lungo tempo la medicina 'ufficiale’, egli decise di abbandonare pillole, impiastri e polveri per esplorare un nuovo campo: vent’anni di esperienza lo avevano infatti portato a fidarsi sempre meno dei sistemi curativi farmacologici e sempre più invece dei mezzi e dei poteri della vita. Iniziò così a trattare i suoi pazienti dando loro soltanto pillole di pane e acqua colorata. Incoraggiato dai primi successi egli prese a curare nello stesso modo patologie sempre più gravi e complesse. I risultati furono eccellenti: i suoi pazienti guarirono in tempo record rispetto ai pazienti che invece prendevano medicinali. Infine, dopo quindici anni di successi senza farmaci, gettò la maschera: i suoi amici medici rimasero sorpresi, alcuni suoi pazienti lo denunciarono come impostore per essere stati ingannati ma la maggioranza di essi - benché confusa dal trucco (farmaco placebo) usato per guarirli - lo incoraggiò a continuare, dicendogli: "Se lei può curare senza medicine allora è il nostro medico". Il Dr. Jennings continuò dunque il suo lavoro, affermando che il sistema basato sui farmaci era sbagliato perché questi ultimi - invece di curare la gente - in realtà ostacolavano la guarigione o cambiavano la malattia originaria in malattia da farmaci (malattia iatrogena). Elaborò quindi un modello terapeutico in cui la malattia è un’unità e le manifestazioni della stessa (sotto forma di febbri, eruzioni cutanee, tosse, diarrea, ecc...) non sono altro che sforzi della natura per liberarsi dalla tossiemia. L’Università Yale gli conferì una laurea ad honorem come riconoscimento del grande successo che ottenne sostituendo le pillole con i placebo. La malattia (intesa come corredo sintomatologico) è invece il tentativo del corpo di ritrovare la salute, una scelta vitale e fisiologica finalizzata alla guarigione.

“Non c’è alcuna forza curante al di fuori del corpo.”
- Dr. Isaac Jennings

Ricorda, non potrai mai far star bene il tuo corpo se lo avveleni.

“Venticinque anni in cui ho prescritto farmaci e 33 anni in cui non ne ho prescritti mi hanno fatto arrivare alla conclusione che i farmaci sono inutili e nella maggior parte dei casi dannosi, e questo è per tutti coloro che vogliono conoscere la verità.”
- John H. Tilden, Dottore in Medicina (1940)

Ecco come ci si ammala:
in sintesi, quando le nostre abitudini di vita permettono all’organismo di raggiungere un crescente stato di intossicazione, l’energia vitale si abbassa in modo inversamente proporzionale e gli organi di eliminazione smettono di funzionare normalmente; aumentando ulteriormente l’accumulo di scarti nel corpo. Ed è proprio quando questi accumuli oltrepassano il punto di tolleranza che l’organismo va in crisi. Per compensare questa eccedenza di sostanze tossiche il corpo reagisce, provocando quella che viene definita malattia.

Il corpo umano è una creazione meravigliosa, che brucia costantemente carburante, elimina gli scarti della combustione e ricostruisce continuamente i tessuti sostituendo le cellule morte con delle nuove. Di fatto ogni sette anni ogni cellula nel corpo viene sostituita, il che significa che, dopo un periodo di sette anni, diverse centinaia di chili di cellule morte devono essere eliminate. Di per sé questo sarebbe un enorme dispendio di energie per il corpo. In più, a causa della mancanza di riposo o di acqua, o solo cercando di digerire l’ “impossibile” (le classiche “porcherie”), per non parlare degli effetti nocivi di una semplice abbuffata, creiamo un’enorme quantità di prodotti di scarto che il corpo gestisce con fatica. Quando il corpo viene sovraccaricato sono di più le tossine che entrano che quelle che vengono eliminate. L’accumulo delle tossine, che si verifica quando il corpo non riesce più ad eliminarle correttamente, ne compromette l’integrità, perché al corpo manca l’energia necessaria per eliminare le sostanze tossiche. Ricordiamolo: per eliminare le tossine serve energia.

La malattia è causata da una “carenza di forza” (ovvero mancanza di energia).
- Dr. Isaac Jennings

Tuttavia il corpo deve proteggere i suoi organi vitali ad ogni costo (il cervello e il cuore), quindi uno dei primi processi ad essere interrotto è quello di eliminazione delle tossine, che - purtroppo - iniziano così ad accumularsi (“tossiemia”). Quando il corpo è saturo apre una valvola di sicurezza per rilasciare le tossine, attraverso uno qualsiasi dei 4 canali di eliminazione: la pelle, i polmoni e il tratto respiratorio, l’intestino e il colon, le vie urinarie. Questa valvola di sicurezza è ciò che comunemente definiamo malattia (il tentativo del corpo di espellere le tossine). In effetti tutte le malattie sono “crisi di guarigione”, cioè un tentativo da parte del corpo di liberarsi dalle tossine in eccesso. La malattia è la manifestazione del tentativo di auto-guarigione del corpo, è l’azione che compie per eliminare i veleni.

Usiamo un po’ di buon senso ora. Se prendessimo un veleno e lo mettessimo in circolazione nel sangue, il corpo risponderebbe cercando di buttarlo il più velocemente possibile per salvaguardare l’integrità del sistema, attraverso uno dei canali di eliminazione disponibili, provocando quindi tosse, vomito, febbre, acne, sudore, diarrea, ecc. Il corpo userà ogni briciola di energia che ha a disposizione per espellere il veleno dal sistema. Potremo quindi avvertire mal di testa, un’abbassamento di energia, dolori articolari, insonnia, affaticamento, problemi ai reni, convulsioni, eruttazione, irritazioni, ecc. Conosciamo una qualsiasi malattia che non presenti questi sintomi ?

“Secondo me la malattia, per quanto dannosi gli agenti che la causano, non è altro che un energico tentativo della natura di eliminare le sostanze patogene e guarire il paziente.”
- Dr. Thomas Shydenham

Ma, invece di lasciare che il corpo elimini le sue tossine, interrompiamo questo processo con i farmaci, immettendo in questo modo altre tossine nel sistema per cui, anziché assecondare il processo di pulizia, lo chiamiamo “Malattia” e cerchiamo di interromperlo il prima possibile! Eliminando i sintomi, interferiamo con la naturale capacità di autoguarigione del corpo. Il corpo quindi non solo sta lottando contro un carico sempre maggiore di tossine “normali”, ma si ritrova ora a dover affrontarne altre: i medicinali che il tuo farmacista ha nel suo arsenale di armamenti anti-sintomi. Quindi… ciò che noi chiamiamo “malattia” è in realtà “la cura”!

Siamo stati tutti così condizionati a pensare secondo i canoni del sistema dominante della medicina allopatica, che è molto difficile accettare l’idea che i sintomi delle malattie siano effettivamente il tentativo di autoguarigione del corpo. La malattia, anche se può avere un effetto più o meno guastante, resta sempre e comunque uno sforzo del corpo per liberarsi della “tossiemia”, poiché se così non fosse morirebbe. Quindi, secondo quest’ottica, si può dire paradossalmente che la malattia in effetti arriva per guarire. L’unica vera malattia è invero la “tossicosi”.

In conclusione:

Il corpo umano ha dentro di sé il potere di guarirsi (senza farmaci).

La base da cui si sviluppa ogni malattia è un accumulo di tossine che il corpo non è riuscito ad espellere attraverso i suoi 4 canali di eliminazione.

La ragione per cui il corpo non riesce a disintossicarsi correttamente è la carenza di energia causata dallo stress, da uno stile di vita non sano e/o maltrattamento del corpo (in particolare attraverso scelte sbagliate in fatto di cibo, iperalimentazione, assunzione di tossine farmaci compresi, ecc.).

Quello che noi chiamiamo malattia è in realtà lo sforzo che il corpo fa per liberarsi dalle tossine, ossia il suo tentativo di guarirsi (le reazioni più comuni sono, tra le altre, febbre, mal di testa, eruzioni, muco, tosse, vomito e infiammazione).

L’assunzione di farmaci va ad aggiungersi alle cause della malattia e ne aggrava la situazione, poiché per il corpo umano sono dei veleni (acidi), e quindi nocivi.

La causa principale delle molte cosiddette “malattie” dell’uomo è da ricercarsi in quelle attività che prosciugano la forza vitale del nostro corpo, le abitudini quindi che tolgono energia al nostro corpo. Di conseguenza la soluzione definitiva alle nostre malattie è una correzione delle abitudini di vita. Non esistono “pillole magiche” (farmaci) per raggiungere una buona salute. Uno stato di salute ottimale deriva dal rispettare alcune semplici leggi naturali; ossia fare le giuste scelte quotidianamente.
di Matt Traverso

28 gennaio 2009

Sulla vita in campagna


Quando si propone (anche in ambienti ecologisti) la via della vita in e della campagna come alternativa centrale, autentica e possibile al sistema di vita dominante (con le conseguenze che gia’ abbiamo davanti agli occhi e quelle che probabilmente avremo a breve) spesso si assiste a polemiche piuttosto accese fra chi difende quest’idea con toni che a volte sconfinano anche nel romantico-ideologico-utopista e chi sembra rifiutare cio’ che gli sembra un vano sogno impossibile respingendolo con energia degna di fanatici dello sviluppismo; energia che pare quella di chi voglia allontanare da se’ il pericolo di poterci credere davvero ad un tale sogno.
E’ chiaro che si tratta di un argomento che stimola le coscienze perche’ e’ in fondo abbastanza evidente che, se diffusa su percentuali consistenti della popolazione, sarebbe forse l’unica scelta che davvero potrebbe dare una svolta radicale in senso eco(ed umano-)sostenibile alla nostra societa’ ed al suo futuro. Quantomeno l’unica che e’ direttamente alla portata delle nostre decisioni come comuni mortali, mentre ogni tipo di programma politico (per inaspettatamente coraggioso che fosse - e non se ne vede comunque traccia) avrebbe bisogno in ogni caso di tempi e condizioni molto complicate nelle quali possiamo solo sperare, ma purtroppo sempre meno credere, in una economia globale che ha ormai bisogno di crescere continuamente anche solo per sopravvivere.
D’altra parte un basilare principio di realta’ non puo’ non farci riconoscere che in tutto quell’insieme di eventi e trasformazioni avvenuti negli ultimi due secoli, che chiamiamo genericamente “progresso”, c’e’ anche molto di positivo se guardiamo a come era prima la condizione umana in molti suoi aspetti, e dunque una scelta in cosi’ radicale rottura con questa tendenza storica come quella di andare a vivere in campagna, chiamandosi fuori da tutto cio’, puo’ sembrare inappropriata perche’ non terrebbe conto della realta’ delle cose.

Questo e’ comprensibile. Ma che si rilegga in chiave radicalmente critica la modernita’, fin nei suoi presupposti, e che a questa critica se ne vogliano far seguire le conseguenze pratiche, non deve necessariamente significare che si pensi di poter fare come se tutto cio’ che e’ avvenuto dal tempo delle candele, dei carretti, delle fattucchiere e delle scomuniche non ci sia stato ne’ ci sarebbe dovuto essere. E’ sorprendente come in un’epoca in cui sembra trionfare l’idea di liberta’, specialmente di pensiero, si rimanga cosi’ impigliati nell’automatismo di credere nell’alternativa netta “o modello sviluppo-consumista o ritorno al medioevo sotto tutti gli aspetti”. Purtroppo succede pure che anche chi pretende a questo punto di preferire la seconda alternativa finisca per credere a questo bivio mal posto. Non c’e’ questo bivio: indietro nella Storia non si torna, si va solo avanti, anche se non sta scritto da nessuna parte che si vada verso qualcosa.
Per questo motivo non possiamo neanche illuderci che una linea di tendenza storica vada comunque verso il meglio solo perche’ a lungo la si e’ chiamata “progresso”, neanche se in parte e fino ad un certo punto lo si e’ potuto fare con buone ragioni. Se determinate trasformazioni sono avvenute ed hanno avuto il sostegno sentito e partecipe di moltissime persone vuol dire che ce ne erano i motivi. Ce ne erano i presupposti e se ne sentiva il bisogno, cosi’ che quando si e’ presentata una via possibile e comprensibile che rispondeva alle esigenze molti l’hanno seguita, pur se cio’ comportava delle rotture e delle notevoli difficolta’ . E’ miope e limitato pensare semplicisticamente in termini di giusto e sbagliato: esistono piuttosto i percorsi, in cui ci sono passaggi anche necessari, inevitabili. Invece di discutere in termini di andare avanti (avanti in che senso?) o tornare indietro (indietro dove?) sarebbe piu’ sensato riconoscere che cio’ che ci ha portato fino a qui aveva ragione di essere, altrimenti non saremmo dove siamo, ma siamo al punto di poter e dover prendere una strada diversa. Qui sta il bivio: nell’andare avanti in un altro modo grazie all’essere arrivati fino a qui con tutti gli errori che ora possiamo vedere ed a cui possiamo porre rimedio.
La Modernita’, la Scienza e la Tecnologia ci hanno affrancato da superstizioni, fame, malattie, fatalismo….; ci hanno portato a credere a cieche ideologie iperrazionaliste, a vederne le conseguenze e poi a non crederci piu’; a riconoscerci artefici della Storia e del nostro destino sostituendoci a Dio in questo ruolo e a ritrovarci ora in balia di forze economiche incontrollabili e impersonali che muovono questa “Storia” e noi con essa senza che ce ne rimanga alcun significativo controllo salvo la versione “realistica” odierna dell’antica devozione nel ripeterci che (pero’) e’ questo che ci da’ il pane ecc.. (soprattutto eccetera, perche’ se si trattasse del pane e del necessario basterebbe molto meno e ci rimarrebbe tempo anche per un po’ di vita come esseri umani); ci dovrebbero aver dato la capacita’ di vedere i fatti come processi e gli opposti come fasi complementari e successive.
Purtroppo la forma mentale occidentale, concettuale, astrattista, tutta legata alla dimensione del linguaggio, tende a mettere sempre le cose in contrapposizione: per questo la nostra storia si compone di movimenti politico culturali che impiegano enormi energie a combattersi ed estremizzare ognuna le proprie posizioni, a non comprendere l’aspetto di realta’ che c’e’ in quelle opposte e, in definitiva, sempre ad andare un po’ troppo in un senso, in modo che poi la cultura che avra’ successo…..successivamente (appunto si dice cosi’)….dovra’ recuperare tanti errori da finire per andar troppo nel senso opposto in modo da generare movimenti di segno opposto e cosi’ via.

E’ grazie al percorso anche distruttivo e consumistico, e’ grazie agli errori fatti ed alla capacita’ di comprenderli insieme a quanto di buono si puo’ conservare che oggi potremmo voler fare a meno di cio’ di cui non abbiamo bisogno. E’ grazie a questa esperienza che possiamo immaginare altri percorsi per cui non necessariamente tutti su questa Terra debbano ripetere gli stessi errori per capire le stesse cose. E’ grazie alla confusione del superfluo che poi possiamo fermarci all’essenziale.
Prendere concretamente una direzione di vita sostenibile, non consumistica, di non collaborazione col sistema distruttivo, di autoproduzione (e come potrebbe essere altro se non con la base di indipendenza economica ed esistenziale che la campagna puo’ dare?) non e’ un tornare indietro, non e’ un misconoscere la realta’ della Storia e del progresso (quel che c’e’ di vero in questo - e non e’ poco), ma e’ confutarne la mitologia, confutare gli aut-aut pseudorealisti e soprattutto non farsi incastrare dall’abitudine a trasformare sempre tutto in materiale dialettico-polemico. Non si puo’ sapere e definire la giustezza a livello generale o di tendenza storica di un’idea senza metterla in pratica, non lo si puo’ fare senza aver lavorato nella propria vita per aprirgli una strada, una possibilita’. Non si puo’ neanche sapere di cosa si stia parlando se non si accetta di scendere nell’esperienza anche se questo modifichera’ alcune delle nostre visioni.
Ed infine non si puo’, proprio perche’ siamo nella post-modernita’, non dare valore centrale alla nostra vita individuale giocata giorno per giorno, anche senza necessita’ di uno schema teorico a tutto tondo, come particella elementare di quel flusso di massa che chiamiamo “Storia”, che, ricordiamoci, possiamo davvero definire e conoscere solo dopo, guardandoci indietro. Mentre le analisi storiche le faranno gli intellettuali a posteriori, la “Storia” la facciamo oggi con le nostre vite. E non si tratta di agire in base ad una concezione lineare-progressiva piuttosto che circolare-statica della Storia: queste anche sono definizioni che appartengono all’ex-post e che sono soggette anch’esse alle mode e alle fasi culturali. Si tratta invece, concretamente e semplicemente, di capire cio’ che va fatto, data la situazione che ci si trova a vivere, non solo immaginandosi elemento separato, ma riconoscendosi parte del Tutto, e farlo, a partire da se’.

Per questo io credo che la scelta di andare a vivere in campagna, di trovare qui un’alternativa autentica e possibile, e’ una scelta oggi non meno attuale e legittima storicamente almeno di qualsiasi altra, se non, a ben vedere, quella davvero appropriata ai tempi, che richiedono svolte nette e fattive che non possono calare dall’alto ma venire dalla responsabilita’ di ognuno, perche’ dalla responsabilita’ di ognuno si riproduce ogni giorno questo “mostro impersonale” al quale abbiamo delegato (da ex- forse piu’ che da post- moderni) il nostro destino e la realizzazione del nostro posto nel mondo, in cambio di una limitata gamma di ripetitive e sempre piu’ solitarie ” liberta’ ” quotidiane.
di Sergio Cabras

27 gennaio 2009

L'acqua che utilizziamo...


Dietro ogni prodotto che compriamo ed ogni servizio di cui usufruiamo si celano enormi quantità di acqua. In un momento in cui milioni di persone soffrono per la carenza idrica, è nostro dovere prendere consapevolezza del valore di tale risorsa ed evitarne gli inutili sprechi.

16 mila litri di acqua in ogni chilo di carne
Per un solo chilo di carne sono necessari 16 mila litri di acqua
Sapete che produrre un chilo di riso richiede 3000 litri di acqua? Che per una semplice tazzina di caffè ne occorrono 140, per un litro di latte ne servono 1000 e per un chilo di mais 900? Ebbene sì, queste sono le cifre riportate nel sito web Water Footprint, gestito dall’Università di Twente (Paesi Bassi) e dall’UNESCO-IHE Institute for Water Education. Il dato a mio avviso più impressionante riguarda, però, la produzione di carne: per un solo chilo di carne di manzo sono necessari, addirittura, 16 mila litri di acqua.


Abbiamo (chi più, chi meno) consapevolezza della quantità di acqua che utilizziamo per dissetarci, cucinare e lavare; più difficilmente percepiamo il consumo idrico per produrre cibo, carta, vestiti e tanto altro ancora. Per fare un ulteriore esempio, in una maglietta di cotone si “nascondono” almeno 2.900 litri di acqua, impiegati nell’intera filiera della produzione.

A misurare il consumo di acqua è un indicatore denominato Water Footprint. L’Impronta idrica consente, appunto, di misurare l’uso di acqua prendendo in considerazione sia l’utilizzo diretto che quello indiretto da parte del consumatore o del produttore. Mentre l’Impronta ecologica calcola l’area totale di spazio produttivo necessario a produrre i beni ed i servizi consumati da una determinata popolazione, l’Impronta idrica calcola il volume di risorse idriche necessarie a produrre gli stessi beni e servizi.

L’Impronta idrica totale di una nazione è formata da due componenti: l’Impronta idrica interna è la quantità di acqua necessaria a produrre i beni e servizi prodotti e consumati internamente al Paese, mentre l’Impronta idrica esterna deriva dal consumo di merci importate o, in altre parole, calcola l’acqua utilizzata per la produzione delle merci nel Paese esportatore.

Dal Living Planet Report 2008, rapporto biennale del WWF sulla situazione degli ecosistemi del mondo, è emerso, peraltro, che l’Italia occupa il 4° posto nella classifica mondiale riguardante l’impronta idrica del consumo. Davanti a noi abbiamo USA, Grecia e Malesia, dietro di noi, Spagna, Portogallo, Canada e tutti gli altri.

A fronte del nostro consumo esagerato ed indiscriminato di acqua, il Report segnala almeno 50 paesi che attualmente stanno affrontando crisi idriche più o meno accentuate ed il numero di persone che soffrono per la carenza di questa preziosa risorsa tende ad aumentare a causa dei cambiamenti climatici.

Eppure, invertire la rotta si può.

“Non solo i governi, ma anche consumatori, imprese e comunità possono fare la differenza, affinchè si possa giungere ad una migliore gestione delle risorse idriche”, sostiene il Prof. Arjen Y. Hoekstra, inventore dell’indicatore Impronta Idrica e direttore scientifico del Water Footprint Network.

Un nuovo studio relativo al potenziale di risparmio idrico dell’UE dimostra che la quantità di acqua utilizzata in Europa potrebbe essere tagliata addirittura del 40% grazie a nuove tecnologie per il risparmio idrico nell’industria e nella produzione manifatturiera, a migliori tecniche di irrigazione e, chiaramente, alla riduzione degli sprechi domestici.

Secondo la relazione, l’acqua utilizzata a fini personali potrebbe essere quasi dimezzata, senza rinunciare a niente ma solo eliminando gli sprechi.


Le bottiglie di plastica consumano moltissima energia
L’acqua imbottigliata consuma energia nelle fasi di produzione, commercializzazione e riciclaggio delle bottiglie in plastica
Potremmo quindi fare la doccia anziché il bagno e ridurre il tempo trascorso sotto il getto d’acqua, non lasciare il rubinetto aperto quando laviamo i denti o i piatti, controllare eventuali perdite dalle tubature, quando è possibile preferire il ciclo economico della lavatrice o, ancora, quando prepariamo il tè, mettiamo a bollire soltanto la quantità di acqua necessaria.

Fondamentale è poi scegliere coscientemente i nostri acquisti: pensare all’intero ciclo di vita dei prodotti che compriamo significa essere consapevoli della quantità totale di acqua necessaria per produrli, utilizzarli e smaltirli. Sarebbe dunque opportuno prediligere prodotti a ridotto impatto ambientale, frenare il nostro consumo di acqua in bottiglia e modificare la nostra dieta limitando i cibi che necessitano di grandi quantità d’acqua per essere prodotti o trasportati, come la carne e gli alimenti elaborati.

Combinate tra loro ed estese al maggior numero di persone possibile, tali strategie possono condurre ad una gestione migliore, e soprattutto più equa, di questa risorsa vitale. Perché se l’acqua è un nostro diritto, non abusarne è, oggi più che mai, un nostro dovere.
di Alessandra Profilio

26 gennaio 2009

Intel testa un datacenter alimentato da fotovoltaico


Energia dal fotovoltaico e datacenter non sembrano andare molto d’accordo: i secondi succhiano quantità enormi di energia che gli attuali impianti solari sembrano non essere in grado di fornire.

Intel però ci prova lo stesso e sperimenta una “stringa” fotovoltaica in grado di fornire 10 Kwp ai datacenter di Rio Rancho in New Mexico, una goccia dei fabbisogni energetici ma che serviranno per farsi un idea su come organizzare il prossimo futuro energetico.

Anche Sun con il progetto Blackbox, “scatole magiche,” cioè un datacenter, il D20,racchiuso in un container e completo di 240 macchine,che richiedono il 40% in meno di energia oltre ad essere completamente riciclabili, ha provato a rendersi autonoma, ma con scarsi risultati. Infatti al CeBit del maggio 2008 a Sidney, Sun presentò il Sun MD, alimentata da circa 200 mq di pannelli solari che si dimostrarono appena sufficienti ad alimentare un rack nella configurazione tipica ad alta densità di un Blackbox.ttualmente c’è un solo datacenter alimentato interamente da 120 pannelli solari ed è AISO (Affordable Internet Services Online) che si trova a Romoland in California, che appunto dichiara di essere autonoma energeticamente (nella foto, presa dalla loro webcam, i pannelli solari), grazie al fotovoltaico al 100% ma anche ad una accorta politica di risparmio e il tutto senza l’aiuto di certificati verdi.

E mentre il Presidente Obama rivede la politica fotovoltaica a stelle e strisce sembra che a non consentire l’espandersi dell’energia proveniente dal sole nelle ITC non siano le tecnologie al silicio bensì i costi dell’energia: tra i 25 e i 30 cent di dollaro a kWh.
by ecoblog.it

24 gennaio 2009

Il podere (piccolo e bello)


Per più di un secolo gli economisti hanno predetto la scomparsa
della piccola azienda agricola (il podere) che condannavano
come “sottosviluppata,
improduttiva e inefficiente”.
Oggi si verifica che, invece di essere una sopravvivenza del
passato
contiene una prospettiva ecologica produttiva ed efficiente
per il futuro.
Il processo in corso di liberalizzazione nel commercio
agricolo internazionale
sta avendo effetti fortemente
negativi ovunque sulle
piccole attività agricole.
Se vale la pena proteggerle, allora, è il
momento giusto per informare gli economisti del mondo ed i politici
sui motivi. Ma vale veramente la pena proteggerle?
Possono
competere con le grandi imprese agricole? Quali sono in termini
economici ed ecologici
i benefici delle piccole attività rurali?
Le ragioni a favore delle piccole attività agricole
In merito alla rinascita della piccola azienda agricola, è importante
sottolineare 3 punti chiave. Il primo: nonostante che i piccoli
contadini siano stati combattuti e cacciati negli ultimi 50 anni
dalle aree rurali di tutto il mondo, ancora insistono. In molte aree
anche degli USA continuano ad essere numerosi.
Nel Terzo Mondo
sono impegnati nella produzione
degli alimenti essenziali. Le
previsioni della loro scomparsa continuano quindi ad essere premature.
Il secondo punto è che la piccola attività agricola non è
così improduttiva o inefficiente come ci vorrebbero far credere
molti teorici. Infatti è evidente che un modello di sviluppo agricolo
basato sulla piccola azienda può produrre più cibo di quello
fondato sulle grandi imprese.
Il terzo punto è che la piccola azienda, il podere, esercita molte
funzioni a beneficio della società della biosfera che vanno ben al
di là della produzione di una particolare derrata. Essa dovrebbe
essere presa in attenta considerazione prima di varare una nuova
serie di misure contro la piccola azienda agricola, come quelle
discusse dal WTO e dai governi che ne fanno parte.
Le virtù della piccola azienda agricola negli USA
Forse con sorpresa il governo degli USA - uno dei più impegnati
nella liberalizzazione dell’agricoltura industriale nel mondo - è
d’accordo con la mia analisi sui pregi della piccola impresa. La
commissione nazionale sulla piccola azienda agricola del ministero
dell’agricoltura americano USDA ha pubblicato nel 1998 una
relazione importante intitolata “II tempo
per agire”. Quello che
l’ USDA in questa relazione definisce “il valore pubblico della piccola
azienda agricola” comprende:
Diversità: la piccola azienda incarna una diversità di forme di
proprietà, modi di coltivazione, paesaggi, cicli biologici, cultura
e tradizioni. Una struttura agricola variegata contribuisce alla
biodiversità, ad un paesaggio rurale diversificato ed esteticamente
piacevole.
Benefici ambientali: una gestione responsabile delle risorse naturali,
suolo, acqua e fauna come si incontra nel 60% delle aziende
agricole americane, costituito da aziende con meno di 70 ettari,
produce notevoli benefici ambientali.
Rafforzamento delle responsabilità comunitarie: una proprietà
terriera decentrata offre un’opportunità
economica più equa per
la popolazione rurale. Ciò può portare a un maggiore senso di
responsabilità personale e di autonomia sulla propria vita. I proprietari
terrieri che per le loro necessità contano sui commerci e
servizi locali hanno anche interesse al benessere della comunità e
dei loro cittadini.
Legame personale al cibo: la maggior parte dei consumatori ha
pochi contatti con l’agricoltura e di conseguenza pochi legami
con la natura e non apprezzano
il ruolo dell’agricoltore. Attraverso
i mercati agricoli e l’agricoltura sostenuta dalla comunità
rurale, i consumatori possono collegarsi a coloro che coltivano i
loro cibi.
Fondamenti economici: in vari stati e regioni degli USA le piccole
aziende agricole sono vitali per l’economia.
Le virtù del piccolo podere nel Terzo Mondo
Un quadro simile si ha anche nel Terzo Mondo dove le politiche
che promuovono le grandi imprese agricole
orientate all’esportazione,
hanno sempre più eroso la vitalità delle piccole attività
rurali. Nelle comunità agricole tradizionali il podere familiare
è strategico per la sostenibilità della produzione agricola. Nella
piccola azienda, le attività produttive, la mobilità del lavoro, i
modelli di consumo, le conoscenze ecologiche e gli interessi comuni
nel mantenere a lungo termine il podere come risorsa, contribuiscono
a renderlo un attività economica stabile
e duratura.
II guadagno a corto termine, che rischia di degradare le risorse
essenziali, colloca sia la famiglia che l’attività agricola a rischio di
collasso. Piccole aziende agricole familiari hanno regolarmente
una produzione più elevata e più dipendente dalla loro terra delle
imprese agricole grandi che operano in ambienti simili. Pratiche
di lavoro intensivo
come la letamazione, l’aratura superficiale, i
terrazzamenti, il compostaggio delle sostanze organiche
e il riciclaggio
dei prodotti vegetali nel processo
produttivo, migliorano
la conservazione e fertilità del suolo.
I piccoli contadini hanno sviluppato, talvolta nell’arco
di
5.000 anni, moltissime tecniche, produzioni e sistemi colturali.
Forse la cosa più importante in un’era di risorse non rinnovabili
in declino, è che i piccoli agricoltori nel Terzo Mondo producano
raccolti
abbondanti con il minimo ricorso a costosi interventi
esterni quali l’uso di pesticidi, di macchine o di semi geneticamente
modificati.
La produttività del piccolo podere
Quante volte ci è stato detto dagli esperti che le grandi imprese
agricole sono più redditizie dei piccoli
poderi o che sono più efficienti?
Eppure i dati attuali, se vengono presi in considerazione,
dimostrano
esattamente il contrario per la produttività: i piccoli
poderi producono molto di più per unità di superficie delle grandi
aziende. E allora perché continuare
la crociata contro i piccoli
poderi? Una ragione
è dovuta al fatto che il metodo convenzionale
usato per misurare la produttività è sbagliato, perché riceviamo
le risposte sbagliate alle nostre domande.
Misure sbagliate
Se dobbiamo valutare in modo imparziale la produttività
media
della piccola azienda e della grande impresa agricola dobbiamo
destituire le “rese” come strumento di misura. La “resa” è la
produzione per unità di superficie di un unico raccolto - per es.,
“tonnellate di mais per ettaro” - ed è la misura basilare usata dagli
economisti per definire la produttività del terreno agrario. Spesso
la resa più alta di un raccolto si ottiene seminandola da sola in
monocoltura. Ma mentre una monocoltura può permettere una
resa notevole di un solo raccolto non produce niente altro di utile
per l’agricoltore. Gli spazi vuoti tra le file - nicchie vuote in termini
ecologici - invitano al moltiplicarsi delle erbe infestanti. La
presenza delle erbacce significa che l’agricoltore deve investire in
lavoro per diserbare o in soldi per i pesticidi. Le grandi imprese
agricole tendono a seminare monocolture
perché sono le più
semplici da gestire con grandi macchine. La piccola attività agricola
d’altro canto tende a preferire raccolti misti, “trasemine”,
in cui gli spazi vuoti non sono occupati da erbacce ma da altri
raccolti. Tendono anche a combinare o ad alternare i raccolti con
i pascoli, con il letame che serve a ristabilire la fertilità al terreno.
Simili sistemi agricoli integrati producono molto di più per unità
di superficie delle monocolture.
Sebbene la resa per unità di superficie di una sola coltura - mais
per es. - può essere inferiore, la produzione
per ettaro, spesso
composta da più di una dozzina di colture diverse, e vari prodotti
animali, può essere molto più alta. Se dobbiamo confrontare la
piccola azienda agricola con la grande impresa dobbiamo usare la
produzione complessiva, invece della resa, come misura più precisa
della produttività. La produzione complessiva è la somma di
tutto quello che produce un piccolo agricoltore: vari cereali,
frutta,
verdure, foraggio, prodotti animali ecc. Con questo metodo
emerge un quadro molto diverso. Esaminando i dati riscontriamo
veramente che le piccole aziende quasi sempre producono di più
per unità di superficie delle grandi. Ciò è ora ampiamente riconosciuto
dagli economisti agrari di tutte le parti politiche come
“relazione inversa tra dimensione dell’attività agricola e produzione”.
Persino gli economisti
dello sviluppo più all’avanguardia
nella Banca Mondiale sono arrivati a questa conclusione al punto
che ora accettano che la ridistribuzione della terra ai piccoli contadini
porta ad una maggiore produzione complessiva.
Le quattro tabelle che accompagnano questo articolo illustrano
solo alcuni dei molti esempi di come la produttività e la dimensione
dell’azienda agricola nel mondo dimostri la relazione
inversa: col crescere dell’azienda
diminuisce la sua produttività
complessiva.
Varie sono le ragioni della maggior produttività della piccola
azienda agricola. Eccone alcune:
Pluralità di raccolti: i piccoli agricoltori mischiano varie
combinazioni sullo stesso terreno, piantano più volte durante
l’anno, e integrano i raccolti col bestiame
e persino con
l’acquacoltura, facendo un uso più intenso dello spazio e del
tempo.
Composizione della produzione: la grande azienda agricola è
orientata verso attività estensive come il pascolo di bovini o le
monocolture estensive di cereali mentre i piccoli agricoltori danno
risalto al lavoro e all’utilizzo intensivo del terreno.
Irrigazione: i piccoli agricoltori sono portati a utilizzare
in modo
più efficiente l’irrigazione.
Qualità del lavoro: Mentre i piccoli poderi generalmente
usano
il lavoro familiare che è personalmente
interessato al successo
dell’attività, la grande azienda
utilizza manodopera a pagamento
relativamente interessata. La piccola azienda spesso dedica più
lavoro per unità di terreno.
L’uso dei mezzi di produzione: la policoltura nella piccola attività
agricola favorisce l’uso di mezzi di produzione autoprodotti quale
letame o compost, mentre la grande impresa usa mezzi comprati
come i concimi chimici.
L’uso delle risorse: le grandi imprese sono meno impegnate nella
buona gestione delle risorse – come i boschi o le risorse d’acqua
– che si combinano con la risorsa terra per produrre di più e meglio.
Efficienza del piccolo podere
Mentre i piccoli poderi sono chiaramente più produttivi
delle
grandi imprese agricole in termini di prodotto, spesso si dice che
la grande impresa è più efficiente. Ma anche questo è falso. La
definizione di “efficienza” più accettata dagli economisti convenzionali
è quella della “produttività
complessiva” - una sorta di
media dell’efficienza nell’utilizzo di tutti i diversi fattori che intervengono
nella produzione compresi la terra, il lavoro, i mezzi
di produzione, il capitale ecc. Tomich ha fornito i dati degli anni
’60,’70 e dei primi anni ’80 che dimostravano
che i piccoli poderi
hanno una produttività complessiva maggiore delle grandi
imprese in zone come l’Africa SubSahariana, l’Asia, il Messico e
la Colombia. Più recentemente la stessa cosa è stata verificata in
Honduras. Nei paesi industrializzati il dato è meno chiaro. L’opinione
della maggioranza probabilmente è che la piccola azienda
è inefficiente perché non usa pienamente le costose attrezzature
meccaniche mentre
le grandi imprese sono anche loro inefficienti
per problemi di amministrazione e di lavoro tipici delle grandi organizzazioni.
Così la più alta efficienza forse si raggiunge in medie
aziende con uno o due operai. In altre parole anche nei paesi “sviluppati”
non c’è modo di vedere che le grandi imprese agricole
siano più efficienti - in pratica possono anche essere abbastanza
inefficienti. Ma c’è molto più da dire dell’importanza economica
dei piccoli poderi se usciamo dalle aziende agricole e ci poniamo
domande sullo sviluppo economico.
Le piccole aziende agricole nello sviluppo economico
Sicuramente più quintali di grano non sono il solo scopo dell’agricoltura;
le risorse agricole devono anche generare ricchezza per
il miglioramento complessivo della vita rurale - che comprende il
miglioramento delle abitazioni, dell’educazione, dei servizi sanitari,
dei trasporti, della diversificazione locale delle attività economiche,
e più opportunità ricreative e culturali.
Negli USA la domanda cruciale è stata posta più dì mezzo
secolo fa: che cosa significa per le comunità e le cittadine rurali
la crescita su larga scala dell’agricoltura industriale? Lo studio di
Walter Goldschmidt divenuto ormai un classico svolto negli anni
’40 nella valle San Joaquin in California ha confrontato le aree
dominate dalle grandi imprese agricole con quelle caratterizzate
ancora dalle piccole attività familiari. Nelle zone rurali dominate
dalle grandi imprese agroindustriali Goldschmidt scoprì che le
città vicine erano morte, la meccanizzazione aveva portato all’occupazione
di meno persone sul posto e la grande proprietà assente
aveva espulso le famiglie rurali. In queste zone agroindustriali il
guadagno ottenuto con l’agricoltura veniva assorbito dalle grandi
città per sostenere altre imprese distanti, mentre prima nei centri
rurali circondati da aziende agricole familiari il guadagno circolava
tra i mercati locali generando lavoro e prosperità per la comunità.
Dove le aziende agricole familiari predominavano c’erano
più affari locali, strade asfaltate e marciapiedi, scuole, parchi,
chiese, circoli e giornali, migliori servizi, più occupazione e partecipazione
civica. Gli studi condotti dopo il libro di Goldschmidt
confermano che le sue scoperte restano vere anche oggi. Se guardiamo
al Terzo Mondo trovi amo che gli stessi benefici si ricavano
solo da un’ economia basata sulla piccola attività agricola. Il Movimento
dei Lavoratori senza Terra (MST) è un’organizzazione
rurale in Brasile che aiuta i lavoratori senza terra ad organizzare
l’occupazione di terre abbandonate appartenenti a ricchi proprietari.
Quando il movimento cominciò, alla metà degli anni ’80, i
sindaci più conservatori si opponevano violentemente all’occupazione
da parte del MST nelle aree circostanti i loro comuni rurali.
Recentemente però il loro comportamento è cambiato. La maggior
parte delle loro città sono economicamente molto depresse
e le occupazioni possono dare una spinta molto necessaria alle
economie locali. Le occupazioni tipiche sono fatte da 1.000-3.000
famiglie che trasformano terreni abbandonati in aziende agricole
produttive. Esse vendono i loro prodotti nei mercati delle piccole
città vicine e si riforniscono dai commercianti locali. I comuni
che hanno insediamenti dell’MST hanno riscontrato una ripresa
economica rispetto agli altri e molti sindaci supplicano ora l’MST
di organizzare occupazioni vicino alle loro città.
È chiaro perciò che lo sviluppo economico regionale e locale
come la vita e prosperità dei comuni rurali trae beneficio da
un’economia basata sulla piccola attività agricola. La domanda
ora deve essere: possiamo ricostruire un’economia basata sulla
piccola attività agricola dove è andata persa, per migliorare lo stato
di benessere dei poveri?
Migliorare il benessere sociale
attraverso la riforma agraria
La storia recente dimostra che la ridistribuzione della terra alle
famiglie rurali che non ne hanno, può essere un modo molto efficace
per migliorare il benessere rurale.
Sobhan ha esaminato i risultati di ogni riforma agraria realizzata
nel Terzo Mondo dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Quando
la terra di buona qualità è stata distribuita ai poveri e il potere
dell’oligarchia rurale è stato spezzato, ne è risultata sempre una
vera e misurabile riduzione della povertà e un miglioramento del
benessere umano.
Paesi come il Giappone, la Corea del Sud, la Cina e Taiwan
sono tutti dei buoni esempi. Invece paesi con riforme che hanno
dato solo terre di bassa qualità ai beneficiari e/o non sono riusciti
ad alterare le strutture di potere rurale che operano contro i poveri
non sono riusciti ad intaccare la povertà. Paesi come il Messico
e le Filippine sono esempi classici di quest’ultimo tipo.
In Brasile l’IBASE, un centro di ricerca economico e sociale, ha
studiato le conseguenze sulle casse dello stato della legalizzazione
del sistema di occupazione delle terre da parte del movimento
MST. Quando i contadini senza terra occupano le terre, obbligano
il governo a legalizzare i loro poderi, questo implica dei costi:
compensazioni al vecchio proprietario, spese legali, crediti per i
nuovi coltivatori ecc. Ciononostante il costo complessivo per lo
Stato di mantenere lo stesso numero di persone in una baraccopoli
- compresi i servizi e le infrastrutture che usano - superano in
un mese il costo annuale della legalizzazione delle terre occupate.
La conclusione da trarre da questi esempi è chiara. La riforma
agraria per creare un’economia della piccola azienda agricola non
fa solo bene allo sviluppo economico locale ma è anche una politica
sociale più efficace del portare i poveri fuori dalle zone rurali,
nelle città che crescono disordinatamente.
Agricoltura ecologica
I benefici della piccola azienda agricola vanno naturalmente al
di là della sfera economica. Mentre la grande impresa industriale
impone una mentalità da terra bruciata sull’amministrazione delle
risorse (nessun albero, né vita animale, solo monocolture che
non finiscono mai) i piccoli contadini riescono ad essere custodi
molto efficienti delle risorse naturali e del suolo. Essi utilizzano
un’ampia gamma di risorse ed hanno un interesse legittimo alla
sostenibilità. Nello stesso tempo i loro sistemi agricoli sono diversi,
e comprendono e preservano nel loro podere una biodiversità
significativa. Come tali le piccole aziende agricole forniscono alla
società in generale preziosi “servizi di ecosistema”.
Negli USA i piccoli agricoltori destinano il 17% delle loro
proprietà ai boschi rispetto al solo 5% delle grandi imprese. La
piccola azienda, rispetto alle grandi destina quasi il doppio della
superficie a pratiche di miglioramento come i raccolti di copertura
e i sovesci. Nel Terzo Mondo i contadini mostrano una
grandissima abilità nel prevenire e invertire il degrado del terreno,
compresa l’erosione del suolo. In molte aree gli agricoltori
tradizionali hanno sviluppato e/o ereditato complessi sistemi di
coltivazione altamente adattati alle condizioni locali. Ciò consente
loro di organizzare sostenibilmente la produzione in ambienti
difficili più rispondenti alle loro necessità di sussistenza senza
dipendere da meccanizzazione, fertilizzanti chimici, pesticidi o
dalle altre tecnologie della scienza agricola moderna, cioè dall’industria
e dall’economia metropolitana. Confrontato con l’abbandono
ecologico di una moderna piantagione per l’esportazione,
il panorama del piccolo podere contiene una miriade di biodiversità:
le zone boscate da cui estrarre cibi selvatici e foglie per le
lettiere degli animali e il compostaggio; il bosco; il podere stesso
con le colture intercalari, l’agricoltura forestale, l’allevamento di
animali di grande e piccola taglia; lo stagno; l’orto, consenta la
loro conservazione di centinaia se non migliaia di specie selvatiche
e coltivate.
Il libero commercio:
nemico della piccola azienda agricola
Se ci interessa la produzione alimentare, i piccoli poderi sono più
produttivi. Se ci interessa l’efficienza, sono più efficienti. Se ci
interessa la povertà, la riforma agraria con lo scopo di creare un
economia basata sulla piccola azienda offre una chiara soluzione.
Se ci interessa la perdita della biodiversità o della sostenibilità
dell’agricoltura, i piccoli poderi offrono una parte fondamentale
della soluzione. Nonostante decenni di politiche contro la piccola
azienda agricola adottate dagli stati, i piccoli contadini sono
rimasti in tanti attaccati alla terra. Ma oggi ci troviamo ad un bivio.
Come mondo siamo pronti a muoverci verso un integrazione
economica globale che minaccia molto di più i piccoli agricoltori
rispetto a quanto avvenuto in precedenza. La liberalizzazione del
commercio e la globalizzazione minaccia gravemente la continuità
della piccola agricoltura. Negli ultimi vent’anni i paesi del Terzo
Mondo sono stati incoraggiati, allettati, minacciati e in genere
spinti a ridurre unilateralmente il livello di protezione offerto ai
loro prodotti interni di cibo, di fronte a competitori stranieri ben
finanziati. Attraverso la partecipazione al GATT, al NAFTA, alla
Banca Mondiale, all’IMF e al WTO essi hanno ridotto o eliminato
le barriere doganali, le quote ed altri ostacoli alle importazioni
illimitate di prodotti alimentari. Le economie del terzo Mondo
sono state inondate dagli alimenti di bassa qualità dei maggiori
paesi esportatori di cereali. Per una quantità di ragioni (sovvenzioni
sia nascoste che aperte, produzioni industriali ecc), questi
alimenti sono spesso messi nei mercati internazionali a prezzi al
disotto dei costi locali di produzione. Ciò abbatte i prezzi che i
coltivatori locali ricevono per i loro prodotti con due effetti collegati.
Primo. Un improvviso calo dei prezzi agricoli può portare i
coltivatori poveri e indebitati a perdere in poco tempo le terre
- semplicemente non possono competere con i prodotti econo174
mici sostenuti dai sussidi delle gigantesche imprese industriali a
monocoltura.
Poi c’è un secondo effetto più sottile. Quando i prezzi dei
raccolti restano bassi a medio termine anche i profitti per ettaro
restano bassi. Ciò significa che il numero minimo di ettari necessari
a sostenere una famiglia sale, contribuendo all’abbandono
dell’agricoltura da parte degli agricoltori più piccoli e poveri - terra
che poi finisce nelle mani dei coltivatori più grandi e ricchi che
possono competere in un mercato di prezzi bassi avendo molta
terra. Essi superano il basso profitto ad ettaro con vaste aree che
permettano complessivamente grandi profitti anche se i profitti
unitari sono bassi.
Il risultato finale dei due meccanismi è l’ulteriore concentrazione
della terra nelle mani di pochi imprenditori. Una penalità
viene pagata per questa concentrazione agraria in termini di produttività,
quando i grandi agricoltori trasformano in monocolture
e meccanizzano le terre e, in termini di ambiente, quando queste
grandi monocolture meccanizzate finiscono per dipendere da sostanze
chimiche. Si perdono posti di lavoro quando le macchine
sostituiscono il lavoro umano e la trazione animale. Le comunità
rurali muoiono quando gli agricoltori migrano nelle città. Le risorse
naturali deteriorano se non c’è più nessuno che se ne prende
cura. Infine la sicurezza alimentare viene minacciata: la produzione
alimentare interna si riduce di fronte a importazioni a basso
prezzo; la terra, una volta utilizzata per rispondere al fabbisogno
alimentare interno, viene usata per produrre raccolti da esportare
in mercati lontani; la gente ora dipende dal denaro - più che dalla
terra - per nutrirsi; e le fluttuazioni dell’occupazione, dei salari e
dei prezzi mondiali di prodotti alimentari possono portare alla
fame milioni di persone.

Ragioni per sperare
Ma fortunatamente c’è un sostegno meno unanime tra le nazioni
del mondo per un programma agricolo di aumento della globalizzazione
guidato dalle grandi imprese USA. Molti paesi hanno raccolto
l’appello del Capitolo 14 dell’Agenda 21, la dichiarazione
promulgata al Summit della Terra nel 1992, per “si faccia una revisione
della politica agricola, alla luce degli aspetti multifunzionali
dell ‘agricoltura, in particolare rispetto alla sicurezza alimentare
e allo sviluppo sostenibile”. Secondo questo punto di vista
l’agricoltura produce non solo beni ma anche modi di vivere, culture,
servizi ecologici ecc. e come tale i prodotti dell’agricoltura
non possono essere trattati nello stesso modo di quelli industriali.
Mentre una scarpa per es. è un bene relativamente semplice il
cui prezzo mondiale si prefissa con l’offerta e la domanda ed un
commercio regolato attraverso tariffe o deregolato togliendole,
i prodotti agricoli si comportano molto diversamente. Il governo
giapponese in un documento preparatorio per i negoziati di
Seattle diceva: “L’agricoltura, non solo produce e fornisce i prodotti
agricoli, ma contribuisce anche alla sicurezza alimentare,
riducendo i rischi causati da eventi inattesi o da una possibile
futura ristrettezza alimentare, aiuta la conservazione del suolo e
dell’ambiente, la creazione di un bel paesaggio e il mantenimento
delle comunità locali attraverso attività produttive in armonia
con l’ambiente naturale”. Tutti questi comparti sono considerati
gli aspetti “multifunzionali” dell’agricoltura... I meccanismi di
mercato da soli non possono portare a un metodo di produzione
agricola che contenga la multifunzionalità dell’agricoltura. Anche
la Norvegia ha sostenuto il concetto di “multifunzionalità” come
giustificazione per uno speciale status dell’agricoltura come ha
fatto entro certi limiti l’Unione Europea e alcuni altri paesi. Più
governi hanno bisogno di appoggiare questo programma. L’aver
ignorato le funzioni multiple dell’agricoltura ha provocato in passato
sofferenze e distruzione ecologica. Già da molto tempo si at176
tende il riconoscimento dei molti contributi che l’agricoltura - in
particolare i piccoli poderi - danno alle società umane e alla biosfera.
Le aziende agricole non sono fabbriche che sfornano jeans
o racchette da tennis e non possiamo lasciare che argomenti miopi
da banali espedienti economici, distruggano l’eredità agricola
mondiale. Tutti noi dobbiamo chiedere a voce alta e con fermezza
che i nostri governi rispettino la multifunzionalità dell’agricoltura
e garantiscano ad ogni paese una vera sovranità alimentare e
rurale facendo un passo indietro dal libero mercato dei prodotti
agricoli. Invece di accrescere le politiche che danneggiano la piccola
agricoltura dobbiamo costruire politiche economiche capaci
di sviluppare le economie delle piccole aziende agricole. Queste
possono comprendere vere riforme agrarie, protezione tariffaria
per alimenti strategici - così che gli agricoltori ottengano prezzi
equi - e il capovolgimento dei pregiudizi nelle politiche di credito,
tecnologie, ricerca, educazione, sussidi, tasse e infrastnitture che
hanno fatto avanzare ingiustamente la grande impresa agricola
a spese di quella piccola. In questo modo potremo colpire alle
radici le cause della povertà, della fame, del declino rurale e del
degrado degli ecosistemi in tutto il mondo.
di Peter Rosset

22 gennaio 2009

Una campagna per far rinascere i contadini

I contadini sono un'altra specie in estinzione. Civiltà Contadina ha lanciato una campagna popolare per una legge che riconosca l'agricoltura contadina e liberi il lavoro dei contadini dalla burocrazia. Oggi possono esistere solo gli impreditori agricoli che sopravvivono anche grazie ai finanziamenti della comunità europea e vengono costretti alle monocolture, senza conoscerne i pericoli...

Il 17 gennaio è partita ufficialmente una nuova campagna con raccolta di firme organizzata da cinque organizzazioni: la Rete Semi
Rurali (Consorzio della Quarantina e
Civiltà Contadina), la Rete Bioregionale Italiana, associazione Antica Terra Gentile, rete Corrispondenze e Informazioni
Rurali. Oltre ai promotori, finora sostengono
la Campagna il collettivo Critical Wine / Terra e Libertà di Genova, la rivista AAM Terranova, il sito www.ruralpini.it

Da quando la figura di chi lavora la terra è stata istituzionalizzata e resa, da anni di leggi, definitivamente e regolamente "imprenditore agricolo", le piccole e piccolissime fattorie rurali hanno gradualmente ceduto il passo: chi chiudendo, chi vendendo, chi evolvendosi in azienda più grande per sopravvivere. Altre cose sono cambiate e hanno preso forma e nomi nuovi. La terra fertile non esiste più, ora è chiamata, in burocratese, SAU (superficie agricola utile). Assieme al trattore e ai suoi attrezzi l'agricoltore non può fare a meno di avere al suo libro paga un commercialista, un esperto di finanziamenti statali, un geologo e altri professionisti vari che avallano le sue pratiche firmandole, perché la burocrazia è diventata parte della sua attività lavorativa quotidiana. Il suo mercato non è più la piazza di paese o di rione ma è la "filiera", corta o lunga che sia, ma di rado l'agricoltore vede il viso di chi mangerà i suoi prodotti.

Le sue sementi, di "altra" qualità ibrida, non sa nemmeno che genetica contengano e non le può possedere o riseminare ma le deve ricomprare ogni anno. E se usa antiparassitari e concimi chimici dovrà possedere una profonda conoscenza di studi farmaceutici per distrigarsi nella lettura delle schede tecniche e comprendere tutti gli effetti collaterali che hanno quei prodotti sulla sua salute. Pochi sanno ad esempio che molti di questi portano all'infertilità. Ogni fase del suo lavoro è regolata da articoli di legge che una commissione agricoltura che si riunisce a Bruxelles, fatta di persone che non sanno "cos'è un campo di grano", gli hanno scritto. Tutto ciò ha prodotto una nuova generazione di lavoratori della terra, profondamente diversa da quella del passato, che non può fare a meno di ampie superfici coltivate con una sola specie (monocoltura) e che cerca di vivere producendo molto ma a basso costo, anche perché i loro clienti, spesso grandi gruppi commerciali, di più non offrono e il prezzo lo fanno loro.

Tutto ciò ha chiuso le porte alla contadinanza di piccola scala, quella che ha a disposizione piccoli appezzamenti e ha solo "mercato di piccola scala" per i suoi prodotti. L'agricoltura contadina e i contadini hanno semplicemente cessato di esistere, sostituiti dagli impreditori agricoli che vivono anche grazie ai finanziamenti della comunità europea.

Civiltà Contadina vorrebbe far rinascere sia i contadini sia un modello nuovo di agricoltura contadina, non per nostalgia, ma nella certezza che si può fare di meglio sui campi di ciò che si fa ora.
di Gabriele Bindi

20 gennaio 2009

Il rimedio della nonna per i capelli


La neve e la pioggia hanno reso fragili, secchi e opachi i vostri capelli? I rimedi giusti ai problemi che la fredda stagione porta con sé vanno ricercati nelle piccole cose che la natura ci offre ogni giorno. Il suggerimento arriva dall’hairstylist milanese, Luciano Colombo, che ci consiglia trattamenti naturali per ritrovare luminosità e morbidezza.
Uovo e mela per rinforzare il capello e scongiurare l’insorgere delle doppie punte. Una maschera che va massaggiata per 5 cinque minuti e lasciata in posa per 30 e che deterge e rafforza la chioma lasciando un gradevole profumo di pulito.
Per punte inaridite Luciano Colombo, sulla scia di antichi rimedi naturali, consiglia un impacco alla banana montata con un cucchiaio di panna “La banana ha proprietà ammorbidenti, la crema ottenuta è in grado di ravvivare il cuoio capelluto opacizzato dai mesi invernali. – spiega Colombo – E’ una maschera che può essere usata tutte le volte che si vuole”.
Il freddo invernale può essere combattuto anche con acqua di castagne, Hennè e olio di Amla. L’acqua dove vengono bollite le castagne e l’olio di Amla serve da base per la maschera. L’Hennè diventa l’elemento che unisce gli altri due. Una preziosa aggiunta di cacao rende la maschera molto idratante e perfetta per capelli sfibrati e opacizzati dall’inverno che incombe.
Insomma, i rimedi della nonna sono ancora validi ed efficaci per ridare luminosità e forza alla chioma indebolita dal freddo.
Anche in inverno è utile seguire dieci consigli pratici per la cura dei nostri capelli:
1. Seguire un’alimentazione equilibrata e ricca di cibi proteici;
2. Non praticare sport a ritmi eccessivi;
3. Utilizzare shampoo delicati;
4. Non esagerare con gel, lacche e prodotti chimici;
5. Tenere il phon ad una distanza non inferiore a 10 cm;
6. Per chi ha i capelli lunghi utilizzare del balsamo dopo lo shampoo e lasciarlo agire, per qualche istante, prima di pettinare i capelli, cosicché i nodi si sciolgano più facilmente;
7. Non abusare di trattamenti chimici come permanente, decolorazione, tinture;
8. Evitare pettinature costrittive per periodi prolungati;
9. Evitare di portare troppo a lungo caschi o cappelli che non facciano respirare il cuoio capelluto;
10. Non lavarli troppo spesso, due o tre volte in una settimana è sufficiente.

18 gennaio 2009

Un pasto veloce buono per ingrassare


Gli anglosassoni lo definiscono come “junk food” e il termine indica in italiano quei cibi veloci da consumarsi, come i panini, che però sono, traducendo alla lettera dall'inglese, “cibi spazzatura”: contengono infatti tantissimi grassi nocivi per la salute e spesso vengono accompagnati da bibite gassate, eccessivamente ricche di zuccheri.
Il risultato è che una veloce pausa pranzo, magari consumata anche in piedi, può tradursi nel sistema più efficace per ingrassare e ingerire sostanze poco salubri.
Gli effetti peggiori si verificano in quelle persone che non solo mangiano cibi grassi, ma li consumano anche in fretta: insomma bando all'accoppiata terribile fast food-junk food.
Uno studio condotto su 1700 studenti dei college americani rivela proprio che mangiare al volo un panino supergrasso, accompagnato da bibite troppo gassate e zuccherine, fa male e fa ingrassare: ben il 35% dei ragazzi e il 42% delle ragazze ha dichiarato di non avere tempo per sedersi a mangiare.
Il problema di pasti troppo rapidi, senza nemmeno avere il tempo di sedersi, è caratteristico ormai della nostra epoca, dove i ritmi sono sempre più forsennati.
Studenti che devono correre da una lezione a un altra all'università, impiegati e professionisti tendono troppo spesso a sottovalutare l'importanza di nutrirsi con calma e con cibi salutari.
La ricerca americana, coordinata dalla dottoressa Dr.ssa Nicole I. Larson, della University of Minnesota di Minneapolis, è stata pubblicata sul “Journal of the American Dietetic Association”.
Dall'indagine emerge chiaramente che chi pranza o cena troppo di fretta è maggiormente portato a consumare “cibi spazzatura”, mentre, al contrario, chi si siede e mangia con calma segue un regime dietetico più sano e bilanciato, con un maggior apporto di frutta e verdura.
"Questi risultati suggeriscono che e' importante prendersi il giusto tempo a pranzo e a cena, e magari mangiare insieme agli amici o ai familiari", dichiara l'autrice della ricerca.
Per la dott.ssa Larson è importante riuscire a ritagliarsi un momento di calma per i pasti, anche in una giornata densa di impegni, per potersi alimentare meglio.
Chi proprio non potesse trovare una mezz'ora per sedersi a mangiare in santa pace, rinunci almeno a cheeseburgers, hot-dogs e altra roba simile, preferendo la frutta, la verdura, i cereali integrali e i latticini magri, che sono tutti cibi assai più salutari dei panini dei fast food.
by italiasalute

11 gennaio 2009

L'uomo che ridà la vista ai poveri



Joshua Silver ricorda perfettamente la prima volta che ha ridato la vista a un uomo. Si chiamava Henry Adjei-Mensah, era un sarto del Ghana. Aveva solo 35 anni, ma stava per ritirarsi. Non ci vedeva più, ed era troppo povero per permettersi la visita da un ottico. È stato a quel punto che Joshua gli ha dato gli occhiali che lui aveva inventato. È stato a quel punto che Henry ha sorriso, e ha detto: «Ora leggo anche quelle lettere lì, quelle piccole». E ha ripreso a lavorare. Da allora il dottor Silver, 62enne ex docente di Ottica all’università di Oxford, ha distribuito 30mila dei suoi occhiali in 15 Paesi del mondo. Ma i suoi piani sono molto più ambiziosi: far tornare a vedere un milione di indiani entro la fine dell’anno. E un miliardo di poveri entro la fine del prossimo decennio.

L'IDEA NEL 1985 - Tutto è cominciato il 23 marzo 1985. Silver, allora un semplice docente universitario, si chiedeva con un collega se fosse possible costruire lenti in grado di adattarsi senza l’aiuto di un ottico o di macchinari costosi. Occhiali, insomma, che chiunque potesse «tarare» da sé, regolandoli sulle necessità dei propri occhi. «Fu allora che capii come fare», spiega al quotidiano britannico Guardian. Costruì lenti di plastica, nelle quali pose una sacca con del liquido. Sulla montatura mise due piccole siringhe piene di quel liquido. Per adattare le lenti ai propri bisogni basta aggiungere liquido finché non si vede chiaramente. Poi si staccano le siringhe, si sigilla la montatura con un tappo, e gli occhiali sono pronti. «Il meccanismo è così semplice – spiega Silver – che quasi non serve dare istruzioni. Tutti quelli a cui abbiamo dato gli occhiali sono stati in grado di sistemarseli da sé, con grande precisione. E di tornare a vedere». Il punto (che Silver definisce «ovvio») è che occorre trovare un sistema per ovviare alla carenza di ottici in alcune zone del mondo. Negli Stati Uniti, o in Gran Bretagna, tra il 60 e il 70% delle persone porta occhiali. Nei Paesi in via di sviluppo la percentuale scende al 5%. E i motivi sono semplici. Anzitutto, in Gran Bretagna c’è un ottico ogni 4,500 persone, mentre nell’Africa Sub-Sahariana ce n’è uno ogni milione di abitanti. «E anche se ce ne fossero di più, nessuno potrebbe permettersi gli occhiali che vengono prodotti normalmente».

UN DOLLARO A PAIO - E tutto questo, continua Silver, influenza «l’educazione, l’economia, la qualità della vita». Senza occhiali, gli studenti non possono vedere bene la lavagna. I pescatori non possono ripararsi le reti, le donne I propri abiti, gli autisti di autobus non riescono a vedere bene le (spesso pessime) strade su cui guidano. Gli occhiali di Silver risolvono molti di questi problemi. Perché chiunque può «aggiustarli» da sé. E perché costano pochissimo: «Per ora siamo a 19 dollari, ma l’obiettivo è scendere di molto». Quanto? «Un dollaro l’uno». Certo, gli ostacoli verso gli obiettivi di Silver non mancano. Il primo, confessa, è che gli occhiali «per ora sono brutti, sembrano usciti da un vecchio armadio di Woody Allen. Ma sul design possiamo lavorare, e comunque l’importante è mantenere il prezzo bassissimo». Già, perché proprio il costo è il secondo problema. Se l’obiettivo è dare occhiali a miliardi di persone, anche un dollaro a occhiale è troppo. Il Dipartimento della Difesa Usa ne ha acquistati 30mila, e li ha distribuiti in Africa: «Ho visto persone camminare sorridendo, in Angola, perché potevano rivedere il loro villaggio. E non lo facevano da quando erano bambini», dice il maggiore dei Marine Kevin White. In India il progetto sarà aiutato da Mehmood Khan, attivista e manager. «E il nostro sogno», spiega proprio Khan, «è che Onu e governi capiscano il valore di questo progetto. E ci aiutino». Silver dice che i suoi occhiali non possono risolvere tutti i problemi. «Non funzionano contro l’astigmatismo. E non possono sostituire un ottico nella diagnosi di glaucoma o altre malattie». Ma sa che la sua idea è buona. «Non ho mai portato occhiali in vita mia», dice. «E penso sia il modo con cui Dio mi dice che sto andando nella direzione giusta».

Davide Casati

10 gennaio 2009

Il latte crudo



Qualche settimana fa i media ci hanno inondato di immagini e parole che mettevano in discussione le proprietà del latte crudo e che diffondevano timore in chi ne fa uso. E’ stato sferrato un vero e proprio attacco al latte crudo. Questo “attacco” ha avuto inizio per opera di Paolo de Castro, ex ministro del PD ed ex presidente di Nomisma (società che, stando a ciò che ha recentemente svelato il giornalista Matteo Incerti, è finanziata dalla Granarolo), il quale ha presentato con altri deputati del PD un’interrogazione parlamentare che mette in dubbio la salubrità del latte alla spina. La tesi è stata appoggiata da professori universitari dell’Ateneo di Bologna che, sempre stando all’inchiesta di Incerti, collaborano con grandi marchi del mercato del latte italiano.

l segreto del perché sia stato fatto tanto clamore sembrerebbe quindi già svelato. Per fortuna, però, ci sono anche “esperti veri” che hanno il pudore di fornire informazioni veritiere.

Un esempio è quello del Dottor Fausto Cavalli, agronomo zootecnico, coordinatore di Bevilatte Srl, Agenzia di Servizi per l’Agricoltura, il quale afferma che il latte crudo è un prodotto solido e sicuro. E nutriente dato che, non essendo stato bollito o pastorizzato, conserva delle caratteristiche nutrizionali nettamente superiori a quello che si trova al supermercato. Inoltre, sempre per lo stesso motivo, esso contiene vitamine ed enzimi intatti che invece la pastorizzazione e la bollitura vanno parzialmente a modificare o, addirittura, a distruggere.
Il latte crudo, quindi, - a differenza di ciò che televisione e giornali hanno iniziato a voler far credere - è assolutamente sicuro perché prodotto in aziende costantemente controllate dalle ASL e dalle autorità preposte. Questo alimento ovviamente non è prodotto come si faceva una volta, perché prima non esistevano né la refrigerazione né tutti i metodi di “pulizia” del prodotto che oggi possono garantirne, appunto, la sicurezza.
La regione Lombardia, ossia quella in cui il fenomeno del latte crudo ha avuto una maggiore diffusione ed un maggior successo, secondo le ricerche effettuate dallo stesso Dottor Cavalli, ha effettuato nel corso del 2008 ben 1423 controlli capillari su tutti i distributori presenti sul suo territorio. Ebbene, non è stato registrato alcun caso di Escherichia Coli O 157. Ciò significa che, nonostante si parli solo ed esclusivamente dei nove casi di sindrome emolitico uremica indotta da Escherichia Coli O 157, stando ai risultati di questi controlli in Lombardia nessuno ha mai avuto infezioni dopo aver bevuto questo latte. E si tratta di migliaia di persone che ne hanno fatto un uso quotidiano nell’arco degli ultimi quattro anni.
Lascia quindi perplessi vedere come si stia cercando di diffamare un prodotto sano tirando in ballo le infezioni da Escherichia Coli, quando invece nessuno (a parte Eric Schlosser nel suo interessantissimo libro “Fast Food Nation”) ha mai seriamente parlato del fatto che tale batterio ha provocato problemi anche molto gravi a migliaia di clienti di McDonald’s. Il batterio in questione, infatti, sarebbe presente in una grande quantità di hamburger dell’onnipresente catena.
Secondo le statistiche, quindi, si dovrebbe avere più paura per i propri figli organizzando una festa di compleanno da McDonald’s che facendogli bere un bicchiere di latte sano, genuino e prodotto dietro casa.
E allora perché è iniziata questa campagna denigratoria? A chi ha dato fastidio il successo del latte alla spina? Ai grandi produttori come la già citata Granarolo? Alla grande distribuzione o a pubblicitari ed agenzie di marketing, visto che il latte crudo fa risparmiare alle persone fra i 50 ed i 60 centesimi di euro al litro e rende quindi poco competitive le marche “tradizionali”? Al governo, perché girano meno soldi e meno merci sulle nostre strade? Ai costruttori di inceneritori, dato che si evita di buttare in discarica o negli inceneritori, appunto, una quantità enorme di bottiglie di plastica e di confezioni in Tetrapack?
La realtà è che l’unica vittima certa del latte crudo è ancora una volta il mito della crescita economica a tutti i costi che viene scalfito quando i cittadini risparmiano ed i produttori anche più piccoli possono continuare la loro attività.
Sarebbe ora di valorizzare, agevolare e tutelare questo tipo di distributori “alla spina” e ancor di più queste iniziative di produzione locale non solo di latte, ma di ogni tipo di prodotto.
Chissà se potremo davvero tornare un giorno ad essere “padroni a casa nostra”. Questo dipenderà anche da noi, dal nostro interesse sia per ciò che ci succede attorno e per il tipo di informazione a cui vogliamo affidarci. Se nel vostro paese o città c’è un distributore di latte crudo, quindi, fatevi un favore: attivatevi per far sì che esso resti dove si trova. Abbiamo tutti solo da guadagnarci, sia a livello economico, che nutrizionale e ambientale.
di Andrea Bertaglio

07 gennaio 2009

Il decalogo per tornare in forma dopo le feste di Natale


Ritornare in forma dopo le grandi abbuffate? Semplicemente seguendo i nostri consigli. Innanzitutto, i fattori responsabili dell’aumento delle calorie durante le feste sono la cattiva abitudine di mangiare cibi molto calorici durante l’intero arco della giornata (63%), seguita dalla tendenza a trascurare alimenti fondamentali come frutta e verdura (42%). A fare da corollario a queste intemperanze, anche l’abuso nel consumo di bevande alcoliche (21%) e l’abbinamento disordinato dei cibi (17%). Tra i principali imputati, responsabili del peccato di gola, spiccano i dolci (70%) in tutte le varietà possibili, dal classico panettone ai dolci regionali.
"Durante il periodo natalizio qualche giorno di esagerazione alimentare non è grave - sostiene Francesco Puerari, Specialista in Scienze dell’Alimentazione - ma è importante riprendere subito in mano le redini di un'alimentazione equilibrata. Il giorno dopo l'abbuffata si sta più leggeri. I cenoni sono l'eccezione, non la regola”.
Per fronteggiare l’aumento di peso e gli squilibri di un’alimentazione disordinata, la parola d’ordine, a detta degli esperti, è disintossicarsi, depurare l’organismo e regolarizzare le proprie abitudini. Per iniziare l’anno all’insegna della salute e riparare ai danni delle abbuffate, via libera ad un’alimentazione povera di carboidrati (22%), che regolarizzi le abitudini alimentari (12%), a tisane depurative e prodotti dall’effetto drenante (21%), che aiutino a liberarsi dei liquidi trattenuti. Ma anche tanta attività fisica (16,7%) per tornare in forma più in fretta.

Il decalogo per tornare in forma dopo le feste di Natale
Alcuni suggerimenti, per riuscire ad osservare una corretta alimentazione, senza rinunciare alle specialità della tradizione.
Osservare una dieta varia e equilibrata: variare l’alimentazione è importante per non far mancare all’organismo i principali nutrienti.
Non sottovalutare i rischi di un’alimentazione iper-calorica: un apporto di calorie superiore all’effettivo fabbisogno contribuisce all’aumento di peso, affaticando l’organismo.
Limitare i dolci: se durante le feste si è esagerato, l’importante è limitarne il consumo nei giorni seguenti.
Evitare il consumo di bevande alcoliche: è consigliabile limitare o evitare di assumere alcolici, dal momento che l’apporto calorico ad essi associato non è affatto trascurabile.
Praticare attività fisica: una corretta alimentazione accompagnata da una sana attività fisica è il metodo migliore per tornare in forma all’indomani delle feste natalizie.
Mangiare frutta e verdura: ricordare di assumere i giusti quantitativi di frutta e verdura, fondamentali per un corretto apporto di fibre, vitamine e sali minerali, è fondamentale specialmente quando si è osservata una dieta poco bilanciata.
Assumere integratori e tisane ad effetto drenante: l’assunzione di tali elementi può aiutare nell’eliminazione dei liquidi trattenuti dal nostro organismo, spesso responsabili dell’aumento di peso. Evitare di assaggiare i cibi lontano dai pasti: limitarsi a mangiare durante i pasti principali, aiuta a tenere sotto controllo le quantità di cibo ingerite.
Ridurre i grassi: moderare la quantità di grassi e oli utilizzati per condire e preferire metodi di cottura leggeri e salutari, sono buone norme che è consigliabile osservare non solo per tornare in forma dopo le feste, ma anche durante tutto l’anno.

Per ritornare in forma e alimentarsi correttamente, ecco allora la dieta consigliata dal Dott. Carlo Lesi

: a colazione: una bevanda ( latte, the, caffè, ecc.) con 5 biscotti secchi o 3 fette biscottate senza marmellata.
a pranzo: 50 g. ( a crudo) di pasta di semola ( o riso) condita con verdure , sugo di pomodoro o pesce con 10 g. di olio d'oliva extravergine a crudo ecc. Assumere molta verdura condita con 10 g di olio, aceto e poco sale. 50 g di pane.
a merenda: yogurt magro alla frutta o un frutto di stagione.
a cena: carne o pesce accompagnati da verdura e un po’ di pane o due uova, sode o alla coque/sett. e 70 g di formaggio 2 volte a settimana

06 gennaio 2009

L'educazione alla terra



Stimolare giovani e adulti al rispetto del nostro pianeta è un obiettivo prioritario. Per capire come si possa diffondere una coscienza ecologica, abbiamo quindi intervistao la dottoressa Marilena Cappuccio, educatrice ambientale di Palermo.


Dott.ssa Cappuccio, cominciamo con lo spiegare cosa si intende per “educazione alla terra”.

"Il metodo “educazione alla terra”, che vi invito a scrivere con le lettere minuscole proprio come vuole il suo fondatore, può essere considerato un’alternativa alla più tradizionale “educazione ambientale”, che si prefigge di essere «di base e di massa, alla portata di tutti e per l’urgenza del momento»".

Per capire meglio, torniamo indietro alle origini del metodo...
"L’“educazione alla terra” nasce negli Stati Uniti negli anni ‘80 ad opera del prof. Steve Van Matre, che crea attorno a sé il gruppo più grande del mondo di persone che operavano volontariamente nell’ambito dell’ambiente: l’Institute for Earth Education, attualmente esistente.

Tutto ebbe inizio dall’esperienza diretta del prof. Van Matre nel campo dell’“educazione ambientale”, nata negli anni ‘60, quando, ormai assodati i rischi e le problematiche del nostro pianeta, si cercava già di migliorare i comportamenti dell’uomo in tal senso. Col passare del tempo, il professore si rese conto che, in 20 anni di applicazione di questo metodo, troppo poco era cambiato, e occorreva una critica attenta sul perché i propositi iniziali stessero fallendo".

Cosa emerse da questa prima analisi?

"Venne subito fuori che sotto il concetto di “educazione ambientale” era finito un po’ di tutto: dalle escursioni con una guida, a qualsiasi laboratorio all’aperto, fino all’educazione fisica nelle scuole. Bisognava mettere a fuoco meglio gli obiettivi. Ecco che Van Matre propone un’alternativa, che chiama “educazione alla terra”, la quale si propone di «aiutare le persone a vivere più lievemente sulla Terra», sia a livello fisico, sia dal punto di vista dei comportamenti e degli atteggiamenti. (Il risultato di queste riflessioni viene pubblicato nel volume basilare “earth education... a new beginning”)".

Quando e come arriva in Italia la nuova metodologia?

"L’Istituto centrale, che ha sede a Cedar Cove in West Virginia, possiede numerosi “rami” in tutto il mondo: in USA, Canada, Giappone, Australia e, quanto all’Europa, in Olanda, Germania, Spagna e Inghilterra. In Italia l’“educazione alla terra” è sbarcata negli anni ‘90 ad opera di alcuni giovani che si erano formati in Inghilterra, e il “ramo” nazionale ha sede nel Parco fluviale del Pò e dell’Orba. Tra i vari coordinamenti regionali, ne esiste uno in Sicilia che fa capo all’Associazione Giona per la Terra, di cui io sono appunto referente".

Qual è la formazione dei membri della vostra Associazione e come vi siete avvicinati al metodo di Van Matre?

"Noi tutti abbiamo una formazione simile: qualcuno di noi è agronomo, la maggior parte proviene dalle Università di Scienze Naturali e Ambientali, anche se per forza di cose abbiamo dovuto approfondire conoscenze di sociologia, pedagogia e perfino recitazione. Uno dei nostri membri si è innamorato dell’approccio di Van Matre dopo aver seguito un corso di introduzione all’“educazione alla terra” nel Parco d’Abruzzo. Al suo ritorno, ci ha trasmesso il suo entusiasmo e abbiamo provato ad applicare questo metodo ad una serie di attività rivolte ai fruitori occasionali della splendida Riserva naturale dello Zingaro (Trapani). Qui nel 1997 è sorto Terra Magica, il primo centro stabile in Sicilia, dove le nostre attività, allargate pian piano anche alle scuole elementari e medie, sono andate avanti per 4 anni, registrando una media di 500 ragazzi all’anno. Gli operatori locali, che sono stati formati allora, oggi continuano ad applicare lo stesso metodo".

Dopo i primi quattro anni, come hanno avuto seguito le vostre attività?

Foto concessa dall'Associazione Giona per la Terra



"Dopo varie altre esperienze in giro per la Sicilia, dal 2000 abbiamo ottenuto in gestione una struttura all’interno del Parco delle Madonie, in cui abbiamo investito gran parte delle nostre energie. Il centro si chiama Pacha Mama che nella lingua degli Indios vuol dire “Terra Mamma”, perché ci piace pensare al nostro pianeta come una mamma che si prende cura di noi ma che dall’altra parte ha bisogno del nostro affetto. Qui abbiamo raggiunto picchi di 6000 presenze all’anno, tra fine-settimana per famiglie, campi estivi, formazione per le scuole superiori, per gli insegnanti, e per gli enti gestori delle aree protette".

Qual è la situazione allo stato attuale?

"Dopo 8 anni di pressanti richieste, finalmente il Parco delle Madonie ci ha riconosciuti come centro accreditato del Parco, quindi tutte le nostre iniziative sono patrocinate automaticamente da quest’ultimo. Inoltre l’Azienda Foreste Demaniali ha individuato l’“educazione alla terra” come metodologia ufficiale per tutte le attività didattiche di profilo ambientale che hanno luogo nelle riserve da essa gestite. Un altro importante passo è che stiamo per entrare in un coordinamento di centri di educazione ambientali a livello regionale, con lo scopo di creare una rete e promuovere iniziative sia singole che congiunte".
di Claudia Pecoraro

04 gennaio 2009

Nuovo regolamento per ridurre lo stand-by





Stand by. Abbiamo già parlato di di iniziative e tecnologie volte alla riduzione dei consumi legati allo stand by. A tal proposito è notizia di questi giorni come la Commissione Europea abbia appena adottato un regolamento sulla progettazione ecocompatibile volto a ridurre il consumo energetico in modalità stand-by a tutti gli elettrodomestici e prodotti elettronici per ufficio. Il regolamento stabilisce nuovi requisiti di efficienza energetica che permetteranno di ridurre il consumo di energia elettrica di quasi il 75% entro il 2020.

In sostanza dal 2010 il consumo energetico in modalità standby di nuovi prodotti dovrà essere inferiore a 1 watt o 2 watt. Questi valori saranno ridotti nel 2013 a 0,5 Watt e 1 watt, approssimandosi così ai livelli raggiungibili con la migliore tecnologia disponibile. La misura, secondo il Commissario dell’Energia Piebalgs, consentirà ai cittadini europei di risparmiare miliardi di euro e di evitare milioni di tonnellate di emissioni di CO2.

Il 7 luglio scorso, i rappresentanti degli Stati membri che costituiscono il comitato di regolamentazione sulla progettazione ecocompatibile, hanno approvato la proposta della Commissione per un regolamento in grado di ridurre il consumo di energia degli apparecchi domestici e dei prodotti per ufficio. Quindi la proposta è stata inviata al Parlamento europeo per la consultazione e la Commissione l’ha ora adottata in via formale, l’ultimo passo della procedura.
Simone Muscas in: Energia Tecnologia EcoConsigli Europa Risparmio energetico

03 gennaio 2009

Le nuove elettriche del futuro


Auto elettriche di taglia piccola, ibride e a idrogeno. Con la crisi petrolifera e quella economica che hanno raffreddato ulteriormente il già tiepido mercato dell’automobile, l’effetto serra che l’uso delle auto non contribuisce certo a diminuire e un’opinione pubblica sempre più attenta ai problemi ambientali, l'imperativo per le case automobilistiche è quello di trovare nuove fonti energetiche, meglio se rinnovabili, per consentire all'auto di risollevarsi dal livello di stagnazione in cui è piombata, presentando modelli meno inquinanti a costi ragionevoli e puntando al traguardo delle "emissioni zero" ( fonte: http://www.ilsussidiario.net )

A cominciare dalle case giapponesi, che si sono lanciate sulle ibride: Toyota leader mondiale, ha annunciato che per far fronte al periodo difficile dell'auto, spingerà maggiormente sulla produzione di auto ibride, mentre Nissan svelerà al Salone di Parigi di prossima apertura, Nuvu che deriva il nome dalla contrazione di “new view”, una concept car totalmente elettrica che la casa promette già di produrre in serie nel 2010. Sarà omologata per 2+1 posti, con il terzo sul sedile posteriore a scomparsa, avrà il tetto, composto da tanti pannelli solari a forma di foglia che servono a incamerare energia per la batteria e i dispositivi elettrici di bordo. Spaziosa e ariosa (l’altezza è di 1,55 metri e la larghezza 1,7 metri), Nuvu impiega per gli interni esclusivamente materiali naturali, organici e riciclati.

Honda si spinge oltre: produrrà FCX Clarity vettura ad idrogeno, prodotta dalla prima fabbrica al mondo dedicata alle vetture a celle a combustibile con sede in Giappone. Dopo 19 anni di sviluppo, inizia la produzione. Le vendite in leasing inizieranno negli Stati Uniti e in Giappone.

General Motorse dell'Electric Power Research Institute. Le nuove stazioni di servizio dovrebbero sorgere all'interno di garage pubblici e grossi parcheggi anche di compagnie private, e l'istituto di ricerca provvederà a progettare colonnine che siano sicure con qualsiasi clima e non pericolose per i bambini.
Distributori elettrici, auto elettriche. Il numero uno di GM, Rick Wagoner, ha presentato la versione definitiva della Chevrolet Volt, l'auto elettrica diventata ormai un simbolo per il colosso americano, che compie un secolo. Wagoner ha sottolineato come «l'industria automobilistica deve essere capace di raggiungere un traguardo fondamentale: lo sviluppo di propulsioni alternative».

La Volt è lunga 4,4 metri, larga 1,7 con un passo di 2,6 e una capacità di carico di 315 litri. Fino a 60 km/h, funziona nella modalità elettrica, alimentata dagli ioni di litio, che forniscono 16 kW. Poi entra in gioco un propulsore termico che agisce da generatore per ricaricare le pile e fa aumentare l'autonomia. Il modulo elettrico è il cuore del sistema: con oltre 220 celle agli ioni di litio nella batteria, la vettura sviluppa una potenza massima di 150 CV che si traduce in una velocità di punta di 160 km/h. Per fare il pieno di watt basta una presa da 220 V di quelle domestiche e tre ore di tempo.

GM prevede costi di gestione paragonabili a quelli di un frigorifero, intorno ai due centesimi di euro al chilometro, quando si usa la sola propulsione elettrica.

Non è da meno Chrysler, che si prepara a presentare al pubblico la sua nuova auto elettrica che sarà una diretta concorrente della Chevrolet Volt di General Motors. La macchina avrà in comune con la Volt l'ambizione di essere un'auto completamente "verde".

Secondo indiscrezioni, pubblicate dal Wall Street Journal, sarà equipaggiata con un motore elettrico che le garantirà un'autonomia di 40 km. Poi, come la Volt, dovrà ricaricare le batterie attraverso un piccolo motore a benzina interno alla macchina. L'autonomia in questa maniera dovrebbe superare i 500 km.
Tesla Motors ha avviato i lavori per la costruzione di un nuovo stabilimento. La fabbrica da 250 milioni di dollari sorgerà a San José e ospiterà l'assemblaggio di una berlina elettrica che sarà in vendita negli States verso la fine del 2010. Forte del successo della sua prima vettura elettrica, la Roadster elettrica, Tesla si appresta dunque a lanciare la novità denominata al momento Model S con un obiettivo di vendita fissato a circa 15 mila esemplari l'anno. Secondo il presidente di Tesla, Ze'ev Drori, la berlina elettrica dovrebbe costare attorno ai 60 mila dollari.
E la vecchia Europa? In Francia, gli incentivi fiscali alla Ricerca e Sviluppo all’industria automobilistica favoriscono i progetti dei nuovi veicoli ibridi o 100% elettrici. La politica d’oltralpe in materia di trasporti è una priorità dal governo francese. La ricerca di alternative in materia di energia da combustibile fossile, e la riduzione dei gas produttori di biossido di carbonio hanno favorito l’interesse per i motori elettrici azionati da batterie di nuova generazione ad elevata densità o da elettricità prodotta da batterie a combustibile. Al momento, queste batterie, associate ad un’elettronica innovativa, consentono un’autonomia media di circa 150 km.
Prototipi di veicoli elettrici di seconda generazione (con batterie al litio) sono già pronti come il modello Cleanova, già usato dalla Posta francese (La Poste), Veolia, Accord, e EDF. Il modello Cleanova è nato da una partnership tra diverse società tra cui SEV (Electronique Serge Dassault) ed Heuliez, progettista e costruttore di automobili di nicchia.

Il gruppo Bolloré invece sta lavorando in partnership con la società italiana Pininfarina al progetto BlueCar, un veicolo che dovrebbe essere pronto entro la fine del 2008.

Renault-Nissan invece produrrà auto 100% elettriche per Renault Israel nell’ambito di un progetto stimato intorno a 150 milioni di Euro: appuntamento con le vendite al pubblico nel 2011. Entro la stessa data, Renault-Nissan fornirà anche ai consumatori danesi veicoli totalmente elettrici progettati insieme alla società Project Better Place.
In Germania, Daimler ha presentato la nuova smart con alimentazione elettrica. Dieter Zetsche, Presidente e CEO di Daimler AG e Responsabile Mercedes-Benz Cars, si è complimentato con il team dell'impianto di Hambach per il lavoro svolto. «Il costante aumento della domanda conferma il successo ed il potenziale delle smart fortwo prodotte ad Hambach. Quest'anno abbiamo già venduto 90.000 automobili, oltre 16.000 destinate al mercato statunitense. A partire dalla metà del 2009 smart circolerà anche sulle strade cinesi».

La nuova smart fortwo electric offre al marchio nuovi margini di crescita: dalla fine del 2009 saranno messe in produzione una piccola serie di smart fortwo electric drive con batteria agli ioni di litio, che garantisce migliori prestazioni, maggiore durata e affidabilità superiore.
Ma anche le amministrazioni si preparano al cambiamento di rotta. Sarà il maggior progetto urbano al mondo sull'auto elettrica. E-mobility Berlin, annunciato dal gruppo Daimler insieme a Rwe (una delle maggiori utilità elettriche europee) prevede, nella capitale tedesca, 500 punti di ricarica veloce per auto elettriche e ibride, e la diffusione di almeno 100 Smart Ed (Electric Drive) dotate di nuove batterie a ioni di litio, ottimizzate per la ricarica rapida e più lunghe percorrenze (rispetto ai primi prototipi della piccola citycar del gruppo Daimler).
La novità, oltre alla dimensione capillare dei punti di ricarica (previsti anche in case private, parcheggi pubblici, shopping centers e complessi di uffici) sarà nell'applicazione estesa di soluzioni telematiche di infomobilità. Le Smart, infatti, saranno dotate di sistemi di pagamento automatico delle ricariche, di navigazione e ricerca delle stazioni Rwe, di ottimizzazione dei percorsi urbani e di tariffe elettriche ribassate (eco-power tariff) accessibili un po' a tutti.

Alle Smart Ed si aggiungeranno, dall'anno prossimo, nuovi modelli ibridi Mercedes (S 400 Blue Hybrid) dotati anch'essi di batterie a ioni di litio e delle stesse soluzioni di accesso a e-mobility Berlin. Altra novità la possibilità, per i possessori di auto elettriche e ibride, di "rivendere" in futuro alla rete l'energia in eccesso (vehicle-to-grid).
by solarnews