11 febbraio 2007

Il supermercato degli ZOMBI



I nuovi schiavi dell'acquisto hanno un nuovo riferimento: il centro commerciale.
È opinione diffusa che uno dei film chiave della contemporaneità sia Zombi. Gran parte della pellicola è ambientata in un centro commerciale brulicante di morti viventi. Gli zombi, si sa, hanno sempre fame, ma attenzione: non hanno più il sistema digerente. Il loro istinto a mordere, strappare carne umana e deglutire è fine a se stesso. Un’abitudine sopravvissuta al decesso, esattamente come quella di recarsi al supermercato per passeggiare e guardare le vetrine. Un centro commerciale, direbbe l’antropologo francese Marc Augé, è un non-luogo, cioè a dire un luogo definito per la sottrazione di tre elementi: identità, relazioni sociali, storia. In un non-luogo si passa ma non si lascia nulla, né si raccoglie nulla che non abbia un valore strettamente commerciale. In un non-luogo le relazioni tra le persone sono strumentali e sfuggenti, distratte, sovrappensiero. Un non-luogo non rappresenta nulla e nessuno, per cui non potrà mai essere un ganglo della Storia. Questo secondo Augé. Ora, siamo franchi. Guardiamoci attorno. Questi luoghi di passaggio sono diventati la cifra stessa della contemporaneità occidentale. Se in origine erano autentici luoghi di passaggio (autostrade, aeroporti) o piccoli regni astratti dalla realtà quotidiana (come i parchi di divertimento a tema), ora i non-luoghi commerciali stanno diventando sempre di più i punti focali dello sviluppo urbanistico e lo standard con cui confrontarsi quando si tratta di prezzi. Ci facciamo i conti in tasca con i loro cataloghi. La nostra agenda, bene o male, è influenzata dal loro stock, dalle loro offerte, dai loro ritmi. Perché “loro”, questi non-luoghi sempre più affollati, in cui i cantanti in declino danno concerti gratuiti e in cui i non-politici decidono di scendere in campo, ecco questi centri – letteralmente – commerciali non sono più gli scatoloni tirati a lucido e pieni di negozi del film di Romero. La nuova frontiera è il Distretto Commerciale. Fuor di metafora, villaggi di megastore con tanto di nome.

Ad esempio, il Meraville di Bologna, nel quartiere Pilastro. I distretti commerciali sono parchi a tema in cui il divertimento non si ottiene più sull’ottovolante, ma mediante l’atto più sacralizzato e facile del mondo in cui viviamo. L’acquisto. Il significato originario di non-luogo perde quindi la sua accezione fiacca e transitoria, perché da luogo di passaggio è diventato una destinazione, un fine, un luogo intensamente (per quanto pateticamente) relazionale. Il tutto sotto l’egida di quella branca dell’economia chiamata grande distribuzione. Saverio Pipitone e Monica Di Bari non hanno bisogno di dirci che questa è una pessima notizia. Nel libro pubblicato all’interno dell’ottima collana Il Consapevole (una serie di veri e propri fili d’Arianna…) i due autori convogliano il concetto attraverso informazioni molto semplici. Ad esempio, per quanto riguarda l’alimentazione in Italia dettano legge cinque grandi gruppi (Coop, Carrefour, Conad, Rinascente-Auchan, Esselunga): per ognuno di questi leggiamo una breve storia aziendale e una breve storia del pensiero aziendale. Ovvero come le aziende decidono di apparire agli occhi dei dipendenti e dei consumatori, a colpi di slogan, loghi e furberie. Non è vero che nel non-luogo impera ancora la distrazione e quel vago olezzo di decerebrato. Nel non-luogo commerciale le grandi aziende pensano ad alta voce e ci parlano senza mezzi termini. Ci consegnano, per certi versi, delle scatole per gli attrezzi – scatole concettuali! – con tanto di accessibilissime istruzioni per costruire la nostra libreria Ikea in tempi record. E insieme all’opinione, alla forma mentis, ci viene consegnato anche il desiderio. Opportunamente precotto e pronto all’inoculazione. Non una secrezione del soggetto desiderante, questo desiderio, bensì un’iniezione. Un bisogno imposto: la necessità di soddisfar bisogni sempre nuovi mediante l’atto dell’acquisto.

Schiavi del supermercato è la grande distribuzione alimentare, di hard discount e fast food, del percorso obbligato dell’Ikea, dei gingilli di Mediaworld, dei cinepanettoni tuttolanno proiettati nelle multisala e del gigante Wal-Mart, l’unico a non essere ancora penetrato nel tessuto economico italiano. Tentativi di predilezione del piccolo rispetto al colossale, del baratto rispetto all’acquisto compulsivo, del vecchio ma ancora buono rispetto al nuovissimo ma difettoso. Queste iniziative si chiamano Slow food, Last minute market, gruppi d’acquisto solidali. Si chiamano mercatini. A questo punto, una precisazione importante. Non si tratta più di opporre banalmente il locale al globale e di raccontare la favola ormai lisa della multinazionale criminale e della bottega pura, laboriosa e moribonda. Esiste una corrente del pensiero economico, sempre più condivisa, che sta lanciando lo stesso tipo di allarme serio e scevro da pregiudizi di un documentario come Una scomoda verità. È vero, ed è molto rischioso, che la Terra si sta surriscaldando - dice il documentario. Bisogna fare qualcosa. I teorici della decrescita dicono che è vero, ed è molto rischioso, che la grande distribuzione sta dettando legge. Perché impone un ritmo produttivo e una complessità di acquisti molto superiori a quelle di cui, obiettivamente, abbiamo bisogno. Perché in seconda battuta non promuove una migliore distribuzione delle risorse, anzi acuisce lo iato tra il nord e il sud del mondo. Infine, come tutti gli elefanti scaraventati nelle cristallerie, fa danni. E noi, come il nostro pianeta, siamo delicati. I teorici della decrescita dicono semplicemente: facciamo un passo indietro. Scaliamo di marcia. “La semplicità volontaria è meglio della complessità obbligata”, questo uno dei loro motti. Non ci si chiede se siamo consumatori critici, ma ci instilla un dubbio collocato più a monte: siamo consumatori consapevoli? Per chi volesse approfondire l’argomento, sempre per i tipi di Arianna sono disponibili due testi che illustrano il pensiero economico che va sotto il nome di decrescita: L’invenzione dell’economia. L’artificio culturale della naturalità del mercato di Serge Latouche; Comunità e Decrescita. Critica della ragione mercantile di Alain De Benoist.

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