Verso la fine degli anni '60, si diffuse nei salotti della nascente piccola e media borghesia, il germe di una rivoluzione sociale, che trovò nella scolarizzazione di massa, in generale, e nelle università, in particolare, il suo terreno più fertile.
Il miraggio che le professioni liberali avrebbero affrancato le generazioni future dalla miseria e dalla fatica generò un vero e proprio genocidio culturale che ha portato alla progressiva emarginazione della civiltà rurale e conseguente scomparsa delle sue antiche radici, dei suoi frutti migliori.
Nel giro di pochi decenni siamo passati da una società prevalentemente occupata in attività agricolo/pastorali, ampiamente dispersa sul territorio, ad una società fatta di operai e colletti bianchi, impiegati nell'attività manifatturiera, rinchiusa in angusti spazi cittadini.
Lo spopolamento delle campagne e la rapida urbanizzazione della popolazione agricola, con la (falsa) aspettativa di poter godere del benessere portato dal "progresso", ha rappresentato un metodo rapido ed efficace affinchè la maggior parte della popolazione, spontaneamente, si ghettizzasse e invertisse un ciclo che perdurava da milioni di anni, rinunciando a vivere a contatto con la natura.
Si tratta di un processo irreversibile, a senso unico: quanti abbandonano la campagna per andare a vivere in città, perderanno per sempre la possibilità di ritornare a vivere là da dove sono venuti, non solo per una questione economica.
Interrompendosi il processo di trasmissione della conoscenza, saranno privi degli indispensabili strumenti culturali per vivere e, soprattutto, sopravvivere in campagna.
La scolarizzazione selvaggia, incentrata solo ed esclusivamente su materie astratte e prive di correlati con la realtà, ha fatto si che siamo ormai saturi di ogni genere di laureato, ma nessuno di questi improbabilissimi "dottori" sa più come si fa un salame o come si coltiva un campo di zucchine.
Una raffinatissima strategia che in sole tre mosse chiuderà la partita.
La prima mossa l'hanno già portata a buon fine, le altre due sono già in atto e ormai pienamente operative.
Dopo aver svuotato le campagne ed aver rinchiuso la popolazione nelle città, la seconda mossa tocca al petrolio: progressivamente, ma ineluttabilmente, si porterà oltre i 500 dollari, azzerando la mobilità.
Si tratta di una mossa praticamente obbligata perché è in gioco la sopravvivenza della specie; il costo della mobilità in termini di produzione di anidride carbonica è insostenibile, ed è impensabile che 6 miliardi e più di persone si spostino quotidianamente, con gli stessi ritmi che per noi sono abituali.
Tanto più che è già pronta una valida alternativa, la terza mossa.
Anziché spostarsi fisicamente, la gente resterà rinchiusa nelle proprie abitazioni e viaggerà nel mondo solo attraverso internet.
Non ci si dovrà muovere nemmeno per andare al lavoro, perché anche il lavoro arriverà, da chissà quale parte del mondo, solo attraverso il video e la realtà virtuale, sostituirà progressivamente il quotidiano, sino a divenire l'unica realtà per la maggior parte della popolazione mondiale.
Il luogo di lavoro coinciderà con la propria abitazione e le mura domestiche diverranno anche il confine oltre il quale sarà difficile, se non impossibile, andare.
Lo spazio, la natura, l'aria, il cibo, saranno un'esclusiva dell'elite del mondo, una infinitesima percentuale dell'intera popolazione mondiale, la classe dominante che ne reggerà le sorti.
Le cose autentiche e genuine saranno i beni più preziosi, cui solo pochissimi potranno accedere, per tutto il resto della terra ci sarà un surrogato.
Un surrogato di tutto, dello spazio in cui vivremo, del cibo che mangeremo e dell'aria che respireremo, ma, inevitabilmente, ci sarà anche un surrogato, particolarmente scadente, della vita nel suo complesso.
La progressiva dismissione delle attività agricole consegnerà definitivamente il loro monopolio alle multinazionali, le uniche capaci di produrre "alimenti alternativi" con cicli e livelli industriali tali da poter sfamare tutti.
Cibi sintetici, a base di soia transgenica, coloranti, aromi naturali e non, ed una buona dose di appetenti, per contrastare l'inappetenza da monotonia alimentare.
Coi cani hanno fatto così ed ha funzionato benissimo.
Le percentuali di vitamine, proteine e sali minerali faranno la differenza, ma alla standardizzazione delle procedure e alla massificazione delle produzioni agricole, corrisponderà un fortissimo scadimento della qualità ed una biodiversità sempre minore.
Tavoletta Rossa, al sapore di carne, Azzurra, al sapore di pesce e Verde, vegetale, un euro.
Tavoletta Gialla, "light" un euro e venti centesimi, con le Margheritine BIO, un euro e 50.
Gli snack e le barrette colorate che occhieggiano in abbondanza sui banchi dei supermercati costituiscono l'anello di congiunzione fra il cibo Originale e quello sintetico di prossima generazione, ma nell'immaginario collettivo questa nettissima distinzione non viene minimamente percepita.
Quel che si dice "Beata Ignoranza" !!
Ecco l'unica alternativa alimentare del 99% della popolazione mondiale, a partire dal 2020.
Il più grande economista del XX secolo, John Maynard Keynes, ha sempre suggerito di investire nel breve e medio periodo, dal momento che nel cosidetto "lungo-termine", saremo tutti morti, ma se anziché preoccuparci del nostro futuro volessimo pensare a quello dei nostri figli, la terra sarà il bene primario, di sicuro l'investimento più prezioso e più remunerativo, l'unico in grado di garantire un minimo di qualità della vita.
di Roberto Biza
30 aprile 2008
Quale futuro per l'alimentazione umana?
28 aprile 2008
Le Vitamine
Sui benefici delle vitamine ci sono stati sempre giudizi altalenanti. L'ultimo viene da uno studio inglese ed è che, se sono tante, fanno male, anzi accorciano la vita, specialmente quelle prese con gli integratori alimentari.
Precedentemente si diceva che allungano la vita, specialmente se sono tante e il più convinto assertore di questa teoria è stato Linus Pauling, noto chimico americano precursore della scoperta del DNA (due premi Nobel) che prendeva un grammo di vitamina C al giorno, venti volte più di quello che serve, sostenendo che allungava la vita: e, infatti, è campato fino a 93 anni.
Sotto accusa sono gli integratori alimentari, che in Italia e in Europa sono soggetti alla notifica dell'etichetta al Ministero della Salute. In base al decreto legislativo n. 169/2004, non possono contenere vitamine in quantità illimitate: per esempio, le quantità di vitamina C e vitamina E non possono superare il 300% della dose giornaliera consigliata e la vitamina A il 150%.
Poi ci sono gli "alimenti arricchiti con vitamine e minerali", ugualmente soggetti a preventiva notifica dell'etichetta al Ministero della Salute e transitoriamente sottoposti al decreto legislativo n. 111/1992 (quello sui dietetici), in attesa di una più precisa disciplina europea, in particolare per la definizione dei livelli di vitamine e minerali. La differenza con gli integratori è che questi sono vitamine e minerali artificiali in pillole, mentre gli altri sono normali alimenti addizionati con vitamine e minerali, sempre artificiali, cioè costruiti in laboratorio ricopiando la molecola naturale. Da tempo si discute se le vitamine artificiali sono uguali a quelle naturali, contenute specialmente negli ortofrutticoli.
Dal punto di vista della formula chimica sono uguali, ma questo concetto non va interpretato assolutisticamente o strumentalizzato per giungere alla conclusione che una pillola di vitamina può sostituire una o più porzioni di ortofrutticoli. Un preparato farmaceutico è un prodotto di laboratorio, a composizione nota, costituito da uno o più principi attivi e da un numero variabile di sostanze chimiche -gli eccipienti- aggiunte per vari scopi: conferire forma, consistenza, conservabilità, colore, eventualmente sapore, aroma, solubilità, eccetera. Un frutto (o un ortaggio), invece, è un piccolo mondo biologico, a composizione chimica estremamente complessa (variabile da un campione all'altro, ma sempre entro certi limiti, cosicchè si possono stabilire i valori medi dei principali costituenti), in cui coesistono più vitamine e una apprezzabile quantità di preziosi flavonoidi (e altri polifenoli).
Questi composti organici (che solo da pochi anni sono al centro di moderne ed entusiasmanti ricerche) sono dotati di attività antitossiche, antinfartuali e perfino antitumorali. In particolare, la triade caroteni-vitamina C-flavonoidi rappresenta un valido apparato antiossidante, ossia in grado di proteggere le strutture cellulari dall'attacco dei radicali liberi dell'ossigeno, altamente implicati nel meccanismo di comparsa delle lesioni arteriose, dei tumori e perfino della senescenza.
In altre parole, negli ultimi lustri i prodotti ortofrutticoli sono stati ulteriormente valorizzati: oltre al ruolo vitaminizzante, sono stati messi in risalto i loro meriti extra-nutrizionali, dovuti appunto ai flavonoidi (pigmenti vegetali) e alle fibre vegetali (che tra l'altro contribuiscono a migliorare la peristalsi intestinale. Infine, un altro pregio è che gli ortofrutticoli contengono le giuste quantità di vitamine e non si può eccedere (non si possono mangiare 20 arance al giorno).
Unione Nazionale Consumatori
Tratto da: www.greenplanet.net
24 aprile 2008
La padella di Camogli
Una volta la padella più grande d'Italia fu costruita nelle officine adriatiche a San Vito ma, il disuso ha portato a vendere tale padella proprio a Camogli. Loro si sono aggiornati, in acciaio inox, noi navighiamo a vista nell'olio bollente.
Nata nel 1952 per volontà di una ventina di pescatori locali, ritorna a Camogli (Ge) la tradizionale e amatissima Sagra del Pesce. Famosa per dispensare gratuitamente pesce fritto di qualità e per l’impressionante maxi padella impiegata (pesa ben 26 quintali e ha un diametro di tre metri e ottanta centimetri), si riconferma ancora una volta come uno degli appuntamenti gastronomici più attesi dell’anno. Organizzata dal Comune, dalla Pro loco di Camogli e sponsorizzata da Friol, assicura festa, spettacolo e una bella “scorpacciata” di pesce saporito e croccante per tutti.
Domenica 11 Maggio, più di 30 quintali di pesce azzurro saranno fritti ad arte nel maxi padellone in oltre 3.000 litri di olio Friol, sponsor ormai storico della manifestazione. Sono più di 100.000 infatti le persone attese nei giorni della manifestazione gastronomica che, per l’ottavo anno consecutivo, vede quale sponsor Friol – l’olio specifico per friggere che, grazie alla sua equilibrata composizione di oli, resiste alle alte temperature, consentendo di ottenere una frittura croccante e asciutta.
L’occasione, neanche a dirlo, è davvero ghiotta: migliaia di ospiti provenienti da tutta Italia si metteranno in fila per aggiudicarsi una delle 30.000 porzioni di pesce freschissimo e fritto ad arte, distribuito gratuitamente in più riprese.
Premio Camogli 2007 e Premio FRIOL – Un Manifesto per la Sagra del Pesce
L’inaugurazione della Kermesse gastronomica avrà luogo giovedì 8 maggio alle ore 19, sulla terrazza Miramare, con la cerimonia del Premio Camogli 2007, assegnato a quei Camogliesi che con la loro attività valorizzano l’immagine di Camogli in Italia e all’estero. Il premio è stato assegnato a Dario Bonuccelli, concertista di fama internazionale a Claudio Celon, asso della vela, e alla memoria di Gualtiero Schiaffino, editore, disegnatore ma soprattutto persona di grande valore umano.
A seguire verranno consegnati il “Padellino d’oro” e il Premio Friol, al giovane studente universitario Matteo Bozzo, vincitore e ideatore del manifesto della 57a Sagra del pesce, scelto da una selezionata giuria di esperti “per la sua vivacità, pulizia grafica ed il forte impatto emotivo concettuale”. Tiziana Schellembrid e Alice Banfi riceveranno invece il “Padellino d’argento”.
Oltre al carattere gastronomico della manifestazione bisogna sottolineare inoltre il sentito legame con la nostra religione: in concomitanza con la Sagra, nella serata di sabato 10 maggio, si svolgerà infatti la processione in onore di San Fortunato, patrono di Camogli, con l’arca del Santo e la banda Città di Camogli.
Qualche informazione storica e tecnica:
Cenni sulla nascita della Sagra del Pesce: la fama della “Sagra del Pesce” di Camogli coincide con quella della sua famosa padella gigante. Tutto ebbe inizio nel 1952 quando una ventina di pescatori decisero, con l’unico scopo di attirare i turisti di passaggio, durante la festa di San Fortunato, patrono dei pescatori, di regalare del pesce fritto.
L’evento ebbe un successo al di là delle aspettative e gli organizzatori furono costretti a friggere pesce per tutto il giorno. L’anno successivo si ripropose l’iniziativa e Lorenzo Viacava detto “O Napoli”, noto pescatore, decise per l’occasione di far costruire una padella gigante che divenne subito la vera attrazione di quella che era oramai diventata una vera e propria sagra.
La fama dell’avvenimento era nel frattempo salita agli onori della cronaca internazionale anche grazie ad un interessamento del New York Herald Tribune, di Re Baldovino del Belgio e di un’eurovisione televisiva del 1955.
Specifiche tecniche della maxi Padella di Camogli:
si tratta di un padellone speciale, non di ferro come i precedenti, ma d’acciaio. Pesa ventisei quintali, ha un manico di tre quintali e un diametro di tre metri e ottanta centimetri, per poter essere agevolmente trasportato nelle varie trasferte in altre regioni d’Italia. La maxi padella sarà alimentata da bruciatori ad aria soffiata in grado di utilizzare sia il gas che il gasolio; il fondale che fa da quinta alla Padella, potrà considerarsi una vera e propria opera d’arte, in quanto completamente rivestito da pannelli intarsiati rappresentanti la Liguria.
L’attuale padella, utilizzata per la prima volta in occasione del cinquantenario della manifestazione, è la quarta della serie ed è stata realizzata anche grazie al contributo di Friol. E’ stata commissionata alla ditta parmense Botti dalla Pro Loco di Camogli e realizzata su progettazione della Europlan di Lavagna. La prima padella cadde in mare nel 1959, la seconda e la terza sono ormai in disuso.
21 aprile 2008
Diminuire il tempo di esposizione alla Tv: dovere
Togliere la televisione e il computer è un mezzo per aiutare i giovani, i bambini in sovrappeso mangiano di meno e perdono peso, ha detto Leonard Epstein presso l'Università di Buffalo, la State University di New York, il cui studio appare nel numero di marzo In Archivio Archives of Pediatrics & Adolescent Medicine. Archives of Pediatrics & Adolescenza Medicina.
"La visione dellaTelevisione è legato al consumo di fast food e gli alimenti e le bevande che sono pubblicizzati in televisione", ha detto lo studio.
I ricercatori che seguono 70 bambini di età compresa tra quattro e sette anni hanno detto che indice di massa corporea erano nel 25% dei casi più sviluppato del loro gruppo di età (BMI).
Tutti quelli selezionati regolarmente svolto guardato la televisione o giochi per computer per almeno 14 ore a settimana. Durante lo studio la metà del gruppo sono stati autorizzati a continuare nelle loro vecchie abitudini, mentre l'altra metà speso il 50 per cento del loro tempo normale di fronte ad uno schermo.
Tuttavia, alla fine dei due anni gli scienziati scoperto che il gruppo limitato pesava in media il 10 per cento inferiori a quelli che potrebbero vista come molto la televisione, come si voleva.
Ma non vi era alcuna differenza nella quantità di attività fisica sia in gruppo. Limitare schermo può ridurre il tempo di mangiare o mangiare mindless richiesto da spot TV, ha detto Leonard Epstein.
I nostri dati suggeriscono che i genitori debbono aiutare i bambini a ridurre il loro tempo di televisione che può essere, aiutandoli a mantenere un peso corporeo sano e prevenire lo sviluppo di obesità in futuro", ha detto.
Obesità infantile negli Stati Uniti, dove si stima che 16 per cento dei bambini dai 6 ai 19 anni sono in sovrappeso, il 45 per cento ha un aumento di un decennio, secondo i ricercatori federali.
(Agenzie)
19 aprile 2008
L'agricoltura locale ci salverà
Ora le cronache parlano di tumulti per il pane, e il mondo intero si chiede perché i prodotti agricoli rincarino così tanto.
Uno studio commissionato dall'Unesco amplia la prospettiva: sostiene che il problema è come si produce cibo, e invita a rimettere al centro i bisogni dell'agricoltura su piccola scala, i sistemi locali, gli ecosiustemi più vulnerabili.
«Il modo di far crescere il cibo deve cambiare radicalmente per meglio servire i poveri e gli affamati, se il mondo vuole far fronte alla crescita della popolazione e al cambiamento del clima evitando rotture sociali e il collasso ambientale», afferma il «Rapporto internazionale sulla scienza e tecnologia agricola per lo sviluppo» (International Assessment of Agricoltural Science and technology for Development). Si tratta del lavoro di oltre 400 scienziati di varie discipline, che hanno lavorato su incarico dell'Unesco sotto la direzione del professor Robert Watson (già presidente del Ipcc, il Comitato intergovernativo sul cambiamento del clima). Il gruppo ha avuto incarico di guardare l'agricoltura come fonte di cibo, nutrimento, salute, servizi ambientali e crescita economica, e come possa fare fronte a sfide globali come il cambiamento del clima e la perdita di biodiversità restando sostenibile e socialmente equa. Perché continuare con il trend attuale di produzione e distribuzione, sottolinea il gruppo, «esaurità le risorse e metterà in pericolo il futuro dell'umanità».
L'agricoltura moderna ha portato aumenti significativi dei raccolti agricoli mondiali, nota lo studio, e ha anche abbassato i costi della produzione su larga scala (è ben per questo che a partire dagli anni '60 del secolo scorso grandi paesi popolosi e rurali hanno conquistato l'autosufficenza alimentare, ed al mondo intero è sembrato che la fame fosse un problema del passato). Ma il costo ambientale di questo successo è altissimo, e i benefici mal distribuiti: la parte più povera della popolazione mondiale è quella che ha pagato più prezzi e ne ha tratto minor beneficio. I piccoli agricoltori, braccianti, le comunità rurali e l'ambiente sono i perdenti. «Il mondo oggi è un luogo di sviluppo diseguale, uso insostenibile delle risorse naturali, impatto crescente del cambiamento del clima e persistente povertà e malnutrizione».
Il rapporto avverte che non ci sono soluzioni «magiche» (vedi ingegneria genetica). «E' l'ora di ripensare profondamente il ruolo dei saperi agricoli, della scienza e della tecnologia», si legge nel rapporto. Come? Tornando a puntare sull'agricoltura su piccola scala, risponde il gruppo di scienziati. «Questo significa migliorare il tenore di vita rurale, emancipare la parte più marginalizzata dei produttori agricoli, sostenere le risorse naturali, valorizzare i molteplici benefici forniti dagli ecosistemi, considerare i diversi saperi, dare un equo accesso di mercato ai prodotti agricoli». Il rapporto se la prende con i sistemi di sussidi e i meccanismi del commercio internazionale: «I più poveri tra i paesi in via di sviluppo sono i perdenti netti nei vari scenari di liberalizzazione del commercio», sottolineava Robert Watson presentando lo studio.
Il rapporto fa un elogio dell'agricoltura tradizionale: «Molte innovazioni efficaci sono generate localmente, sulla base dei saperi e esperienze di lcomunità locali e indigene più che sulla ricerca scientifica formale». La possibilità di brevettare modifiche genetiche può attirare finanziamenti nella ricerca agricola, nota il rapporto: ma porta anche a concentrare la proprietà delle risorse, fa salire i costi, deprime la ricerca indipendente, «mina le pratiche agricole locali come il mettere da parte e scambiare i semi, di grande importanza nei paesi in via di sviluppo».
E se bisogna produrre più cibo, bisogna anche proteggere terreni, acqua, foreste, biodiversità, conclude Watson: «Continuare a puntare solo sulla produzione devasta il "capitale" agricolo e ci lascerà con un pianeta sempre più degradato e diviso».
di Marina Forti
17 aprile 2008
Una cura per ferite gravi: combina gli estratti oleosi di 2 piante
Fiorella Carnevali, veterinario, e Stephen Andrew Van der Esch, biologo, tutti e due ricercatori Enea hanno inventato l'unguento che cura le ferite gravi e le ustioni. Si chiama Mix 557 ed è stato ricavato dalla combinazione di due piante, una occidentale chiamata Iperico o Erba di San Giovanni e l'altra asiatica chiamata Neem.
L'unguento. Il prodotto è stato brevettato dall'Enea con la dicitura «composizione fitoterapica con effetti cicatrizzanti biocida e repellente per la cura e la risoluzione delle lesioni esterne di qualunque estensione e natura». Lo sfruttamento è stato concesso alla Rimos, una società del consorzio medicale di Mirandola e presto sarà una medicina accessibile a tutti. A proposito di questo Fiorella Carnevali ha detto: «Insieme al collega van der Esch stiamo lavorando a stretto contatto con la Rimos per la produzione industriale del medicamento, e per la registrazione nella categoria dei medical device per uso topico, sia per la medicina umana che per la medicina veterinaria». L'unguento, che è indolore e lenitivo è pratico anche per l'automedicazione. «Il Mix 557 - dice la studiosa- si rivelerà molto utile come presidio medicale nelle emergenze militari e civili, anche per la terapia delle ustioni di grande estensione. Un aspetto non ancora indagato a livello istologico, ma rilevato clinicamente nella casistica sperimentale, è rappresentato dalla elevata qualità delle cicatrici specie su estese e severe lesioni traumatiche».
Gli studi. Spiega la veterinaria dell'Enea: «Abbiamo iniziato studiando gli antiparassitari esterni. Ma sapevamo già gli effetti della pianta di Neem, usata da circa 3mila anni nella medicina tradizionale indiana e successivamente diffusa in tutti i paesi tropicali dagli indiani al seguito degli inglesi al tempo delle colonie. La pianta veniva applicata sulle ferite per allontanare gli insetti. E sapevamo anche che l'Iperico era anticamente conosciuto per la cicatrizzazione delle piaghe». «La combinazione degli estratti oleosi -continua- ha portato, dopo vari tentativi, al prodotto che è oggi: un unguento che non solo cura e rimargina qualunque tipo di lesione esterna, ma anche evita la reinfestazione da larve di ditteri Miasigeni, mosche che depositano uova o larve vive sui tessuti vivi, fino alla guarigione». Il preparato, continua ancora la Carnevali, «da un lato forma una barriera trasparente che evita l'attacco dei germi sulla superficie lesa, che è una delle cause di morte in caso di grandi ustioni, e dall'altro aiuta la ricomposizione in tempi rapidi del tessuto di granulazione dalla qualità del quale dipenderà la guarigione con esito migliore anche sulle cicatrici».
fonte: il messaggero.it
16 aprile 2008
Caffè, alto potere antiossidante
Elevato potere antiossidante grazie al contenuto degli acidi clorogenici, azione protettiva nei confronti dello sviluppo del diabete di tipo 2 e del morbo di Parkinson, rallentamento del naturale declino cerebrale nelle persone anziane, nessun effetto sfavorevole sul rischio cardiovascolare: sono queste le principali novità legate al consumo di caffè che emergono dai pi� recenti studi scientifici internazionali.
NFI, Nutrition Foundation of Italy - il Centro Studi dell’Alimentazione - ha fatto il punto della situazione insieme ad esperti internazionali: il professor Augustin Scalbert, Direttore del laboratorio di Micronutrients, Metabolism and Biological Signatures presso l’INRA Clermont-Ferrand e il professor Francesco Visioli della Nutrition Foundation of Italy e Direttore del laboratorio di Micronutrienti e malattie cardiovascolari presso l’Università di Parigi Pierre et Marie Curie evidenziano in particolar modo i numerosi benefici derivanti dal consumo di caff�, sottolineati dalla più recente letteratura scientifica, grazie al suo contenuto naturale di antiossidanti.
Il caffè rappresenta una delle bevande più bevute al mondo, con un consumo che, seppur molto variabile da paese a paese in quantità e modalità, oscilla tra i
L’Italia registra mediamente un consumo di caffè di 6 kg/annui a persona (fonte: International Coffee Organization). Nonostante questi dati però, c’è ancora oggi scarsa conoscenza sulle proprietà nutrizionali del caffè, e spesso l’attenzione del pubblico resta focalizzata esclusivamente sulla caffeina ed i suoi effetti sull’organismo. Dati di un�indagine condotta a livello europeo, infatti, mostrano che più dell’80% del campione non è a conoscenza degli elementi nutrizionali contenuti nella bevanda.
Il caffè è in realtà una delle fonti dietetiche più abbondanti in antiossidanti naturali, quelle molecole che rallentano o prevengono i danni da radicali liberi. Gli acidi clorogenici sono i principali composti ad azione antiossidante contenuti nel caffé e senz’altro i più potenti. Analizzati prima della torrefazione del chicco, risultano essere molto numerosi e di struttura diversa; i diversi processi di lavorazione, la temperatura, la macinazione ne riducono la presenza anche fino al 90% ma in ogni caso è possibile affermare che 100 ml contengono circa 250 mg di acidi clorogenici, una quantità rilevante.
Alcuni studi epidemiologici condotti in Olanda e Finlandia hanno evidenziato come il consumo di caffé, probabilmente grazie al contenuto in acidi clorogenici, si associ ad effetti preventivi nei riguardi di patologie oggi molto diffuse, come il diabete di tipo 2 ed il morbo di Parkinson.
Nel 2002 la rivista Lancet ha pubblicato uno studio condotto su un campione molto vasto di 17.000 uomini e donne olandesi dal quale è emerso che la probabilità di sviluppare diabete di tipo 2 fosse inferiore del 50% nei soggetti che consumavano quotidianamente un minimo di sette caffé al giorno rispetto a chi ne consumava solo due. Risultati confermati anche da uno studio clinico successivo, pubblicato due anni più tardi e realizzato in Finlandia su 14.000 soggetti osservati per un periodo di ben 12 anni: tra i consumatori di quantità molto elevate di caffé (10 tazze al dì) è stata riscontrata una riduzione del rischio di sviluppare diabete di tipo 2 del 55% tra gli uomini, e del 79% tra le donne. Tali risultati sembrano dovuti ad un’azione protettiva che l’acido clorogenico e gli altri antiossidanti polifenolici attivano nei confronti dell’organismo: viene così inibito l’assorbimento del glucosio a livello intestinale ed aumentato il consumo energetico. Questi effetti sembrerebbero addirittura maggiori con il consumo di caffé decaffeinato. Uno studio pubblicato nel 2006 su Archives of Internal Medicine, infatti, che ha testato un campione di 29.000 donne in post-menopausa ha evidenziato che il consumo di 6 tazze di caffé decaffeinato al giorno può ridurre il rischio di diabete di tipo 2 del 33% contro il 21% del caffé normale.
L’azione antiossidante dei polifenoli contenuti nel caffé sembra avere inoltre un effetto positivo anche sull’incidenza di malattie neurodegenerative, con particolare riferimento al morbo di Parkinson. Un effetto favorevole in tal senso potrebbe tuttavia essere attribuito anche alla caffeina. Le evidenze più significative a questo proposito emergono da uno studio condotto dal dottor Alberto Ascherio dell’Università di Boston su un campione di 300.000 soggetti: i dati riscontrati a livello molecolare mostrano come la caffeina riesca ad intervenire sulla tossicità dopaminergica, responsabile dei danni subiti dai neuroni della substantia nigra che regola gli impulsi all’attività motoria.
La letteratura scientifica riporta, inoltre, un numero sempre maggiore di studi che evidenziano la capacita del caffé di contribuire al mantenimento della funzionalità cognitiva. Da un recentissimo studio pubblicato nel 2007 sull’European Journal of Clinical Nutrition realizzato su un campione di 676 uomini sani nati tra il 1900 e il 1920 seguiti per un periodo di 10 anni è emerso che il declino cognitivo era circa dimezzato nei soggetti che avevano l’abitudine di consumare regolarmente tre tazze di caffé al giorno. Ad avvalorare la tesi del caffè che ‘fa bene al cervello’ esiste anche uno studio presentato al meeting annuale della Psysiological Society nel 2006 secondo cui la caffeina sarebbe in grado di aumentare la frequenza di alcune onde cerebrali migliorando quindi memoria e apprendimento.
Ma i benefici di questa domanda sembrano avere effetti positivi anche sull’insorgenza di patologie epatiche degenerative. Uno studio apparso nel 2006 su Archives of Internal Medicine ha analizzato 125.000 soggetti e ha evidenziato che ogni tazza di caffè bevuta al giorno era associata ad una diminuzione del 22% del rischio di sviluppare cirrosi epatica. Una meta-analisi successiva ha anche esteso questi risultati ad altre gravi patologie come il carcinoma epatico.
”Consumato in dosi moderate e con costanza quotidiana, il caffé ha dimostrato di essere un aiuto importante nella prevenzione di patologie metaboliche e neurodegenerative. La sua presenza, quindi, all’interno della dieta di ogni giorno non solo influenza positivamente la sfera emotiva della persona ma può contribuire al benessere dell’organismo” ha affermato il dottor Andrea Poli, Direttore Scientifico di NFI. “Grazie soprattutto al contenuto naturale in acidi clorogenici, il caffé, anche decaffeinato, è tra le fonti dietetiche più abbondanti di antiossidanti. Il suo consumo permette di assumerne quantità significative, con favorevoli implicazioni sulla nostra salute” ha concluso Andrea Poli.
15 aprile 2008
Un paese in Bottiglia
Ci sarà pure la crisi economica, ma continuiamo a scolarci più di mezzo litro di acqua minerale a testa per 365 giorni l'anno: 194 litri ciascuno.
Erano 65 litri nel 1985: il dato è triplicato in due decenni, assicurando all'Italia il record mondiale del consumo di acqua imbottigliata.
La scelta suonerebbe logica in un paese percorso dagli scandali sull'inquinamento delle falde idriche, ma non viaggia in parallelo con i fatti.
Le denunce più clamorose dell'inquinamento da discariche abusive e da diserbanti risalgono alla prima metà degli anni Ottanta. Da allora, anche grazie alle direttive europee, la capacità di depurazione e controllo è nettamente migliorata, come è stato dimostrato anche da una ricerca in dieci grandi città sponsorizzata nel luglio scorso da Repubblica.
Eppure la diffidenza verso la mano pubblica che effettua i controlli sommata alla formidabile pressione del marketing delle aziende di settore ha trasformato il consumo di acqua minerale da piacevole alternativa sensoriale a bisogno indotto.
Il risultato è quello denunciato nel rapporto "Una paese in bottiglia" preparato dalla Legambiente in occasione della giornata mondiale dell'acqua che si celebra il 22 marzo. Secondo Stefano Ciafani, responsabile scientifico dell'associazione ambientalista, l'impatto derivante dalla filiera delle acque minerali è pesante: nel 2006 gli italiani hanno utilizzato circa 6 miliardi di bottiglie di plastica, la cui produzione ha implicato il consumo di 480 mila tonnellate di petrolio e l'emissione in atmosfera di 624 mila tonnellate equivalenti di anidride carbonica. Anche colpa della scomparsa dell'acqua di rubinetto come terza opzione possibile (oltre al classico liscia e gassata) al ristorante e al bar.
L'altra faccia di questa contraddizione è il buono stato di salute dell'industria dell'acqua minerale. In Italia nel 2006 erano attive 189 fonti e 304 marche di acque minerali in grado di generare un volume di affari di 2,2 miliardi di euro, grazie all'imbottigliamento di 12 miliardi di litri di acqua.
Ma quanto rende al paese questo settore? La fotografia che emerge grazie al questionario inviato da Legambiente alle regioni italiane, a cui hanno risposto tutte con l'unica eccezione della Calabria, è desolante. Solo in 8 Regioni è previsto un pagamento proporzionale ai litri prelevati o imbottigliati: Basilicata, Campania, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte, Umbria e Veneto. E si va dai 30 centesimi a metro cubo della Basilicata ai 2 euro del Lazio e ai 3 del Veneto.
La Sicilia e la provincia autonoma di Bolzano fanno pagare in base ai volumi d'acqua, ma con canoni discutibili visto che in Sicilia paga di meno chi preleva di più e in Alto Adige, si legge nel rapporto, "il canone annuo previsto è ridicolo (circa 617 euro per ogni litro al secondo derivabile): se una concessione permette la derivazione di 10 litri al secondo, il titolare del diritto è tenuto a pagare un canone annuo di 6.175 per una concessione che potrebbe prelevare - per 24 ore al giorno e per 365 giorni all'anno - fino ad un totale di circa 315 milioni di litri ogni anno".
In 8 Regioni (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Puglia, Sardegna, Toscana, Trentino, Valle d'Aosta) si paga ancora con il vecchio criterio e cioè solo in funzione degli ettari dati in concessione alle aziende. In Puglia la cifra ammonta a circa un euro per ettaro e in Liguria arriva intorno ai 10 euro; nel Lazio e nelle Marche invece si arriva a pagare circa 120 euro mentre in Veneto, nelle zone di pianura, quasi 590 euro per ettaro. Infine l'Abruzzo prevede solo il pagamento di un canone forfettario (pari a poco più di 2.700 euro all'anno) a prescindere dalle superfici della concessione e dai volumi di acqua.
"E' vero che non tutte le Regioni hanno utilizzato le possibilità offerte dalla devolution che ha decentralizzato le competenze in questo settore", afferma Ettore Fortuna, presidente di Mineracqua. "Ma lo hanno fatto le 10 Regioni in cui si imbottiglia l'80 per cento dell'acqua minerale italiana, a cominciare da Lombardia, Piemonte e Veneto che da sole coprono metà del mercato: lì si paga non in base agli ettari dati in concessione ma ai volumi di acqua prelevati. La voce secondo la quale le nostre industrie pagano poco è dunque una leggenda metropolitana: il problema è un altro: le tariffe applicate sono così disomogenee da creare problemi consistenti alle aziende e per questo abbiamo presentato un ricorso all'antitrust".
"In Umbria", ribatte Ciafani, "gli introiti derivanti dai canoni di concessione dalle diverse aziende imbottigliatrici che operano nella regione sono di circa 1,4 milioni di euro, pari allo 0,6 per cento del volume di affari derivante dalla vendita delle acque minerali. In molte regioni questi introiti non sono neanche sufficienti a coprire le spese sostenute dalle amministrazioni pubbliche per la gestione amministrativa e l'attività di sorveglianza. Calcolando che solo un terzo circa delle bottiglie di plastica utilizzate è stato raccolto in maniera differenziata e destinato al riciclaggio si ha il quadro di una situazione che deve cambiare".
Qualcuno comincia già a muoversi: in molte scuole a Torino, Firenze, Roma e Bologna è stata eliminata l'acqua in bottiglia utilizzando esclusivamente quella di rubinetto.
ANTONIO CIANCIULLO
12 aprile 2008
Un'alga che ripara il cuore
(AGI) - Washington - Un gel derivato da un'alga potrebbe essere il sistema giusto per evitare ulteriori danni ai tessuti in chi ha subito un attacco di cuore. Lo ha affermato la rivista New Scientist, secondo cui una sperimentazione clinica del preparato e' appena iniziata su 30 pazienti in Germania, Belgio e Israele. Il gel viene iniettato nel cuore dopo che ha subito l'infarto, e aiuta i tessuti a non subire ulteriori danni mentre si rigenerano. Se i primi trial andranno bene e' gia' pronto un nuovo round su qualche centinaio di pazienti, mentre la commercializzazione potrebbe avvenire nel 2011. L'alginato, questo il nome della sostanza, viene iniettato nella parte del cuore da ricostruire, dove forma una struttura attorno alla quale possono rigenerarsi le cellule. Dopo sei settimane, il composto si biodegrada completamente e lascia l'organismo. ''Questo trattamento - ha spiegato Jonathan Leor dell'Universita' di Tel Aviv - potrebbe rivoluzionare la cura di chi ha subito un grosso attacco di cuore''.
05 aprile 2008
Il colesterolo non provoca l'infarto, ma è un affare per chi vende farmaci
Finalmente. Il fatto che uno dei tanti megafoni delle finte crisi sanitarie degli ultimi anni - il Corriere della Sera - abbia dedicato lunedì ben due pagine alle bufale degli anni passati è un buon segno. Certo, ci sarebbe piaciuto essere stati meno isolati quando invitavamo a ragionare sui numeri e a non farsi trascinare dall'isteria (pilotata da potenti interessi), quando insomma scrivevamo che non saremmo morti di mucca pazza, né di Sars o di aviaria, ma che sarebbe stato più probabile venire spazzati via da un Suv o morire di rifiuti tossici. Stessa cosa si può dire per l'allarme "bioterrorismo" in nome del quale sono stati elargiti fior di milioni - basti pensare all'epopea dello Spallanzani - per fronteggiare la fantomatica epidemia di antrace rivelatasi, anche quella, una bufala. Ma il colesterolo può essere buono a seconda che sia veicolato da lipoproteine a alta densità (Hdl) o a bassa densità (Ldl) e niente dimostra che sia lui il vero nemico visto che l'infarto colpisce anche persone con valori normali. I due farmaci presi in considerazione dallo studio Enhance, infatti, pur abbassando il livello del colesterolo non prevengono affatto la formazione delle placche. di Sabina Morandi fonte: liberazione.it
Ben vengano le riflessioni su quei cinque-seicento milioni di euro buttati via per prevenire le (false) epidemie in arrivo mentre negli ospedali mancano posti letto e infermieri, ma vediamo come se la cavano i colleghi nello smascherare le bufale di oggi, quelle che continuano a risucchiare fondi e a suscitare paure prive di fondamento. E, se i dati dei nuovi studi verranno confermati, certo quella del colesterolo potrebbe delinearsi come la madre di tutte le bufale.
All'inizio di febbraio è stata infatti resa pubblicata una ricerca che smentisce uno dei dogmi della medicina degli ultimi anni ovvero la stretta correlazione fra colesterolo e infarto. Lo studio Enhance ha dimostrato che due farmaci anticolesterolo (l'ezetimibe che ne inibisce l'assorbimento intestinale e la simvastatina che ne riduce la produzione nel fegato) non apportano alcun beneficio alle nostre arterie. Insomma: anche se i farmaci abbassano il livello di colesterolo presente nel sangue non riducono il rischio di infarto. Lo studio, condotto e finanziato dai produttori dei due farmaci, è stato tenuto nel cassetto per due anni prima di arrivare alla pubblicazione di oggi.
Nel commento del corrispondente della rivista Science Gary Taubes, pubblicato sull'Herald Tribune del 6 febbraio, viene spiegata l'origine dell'equivoco: in sostanza si è sempre confuso il colesterolo con le proteine che lo trasportano, le lipoproteine appunto.
Insomma, dopo anni di disgustosi beveroni, faticose rinunce e culto dei mitici omega 3, viene fuori che il colesterolo alto non fa male: una vera e propria rivoluzione che però, anche se è stata diligentemente riportata da qualche quotidiano nazionale, non ha minimamente interrotto il constante flusso di spot che ci consigliano questo o quel prodotto né, tanto meno, ha suscitato il mea culpa della comunità medica per avere tanto entusiasticamente abbracciato il verbo dell'industria farmaceutica.
Bisogna sottolineare che la stessa cosa accade negli States dove la Food and Drugs Administration, l'ente americano per il controllo delle medicine che alla fin fine detta la linea a tutto il pianeta, continua a registrare farmaci per la prevenzione delle malattie cardiache solo in base al fatto che riducono le lipoproteine che trasportano i grassi nel sangue mentre le autorità sanitarie continuano a condurre campagne di prevenzione mirate alla riduzione del colesterolo.
Gli interessi dell'industria farmaceutica nel settore delle malattie cardiovascolari sono evidenti - basti pensare quanti milioni di pazienti hanno continuato la terapia nei due anni durante i quali lo studio Enhance è stato tenuto in stand-by. In effetti, grazie alle dissennate abitudini alimentari dell'Occidente e all'allarme diligentemente pompato dai media, il mercato dei farmaci anti-colesterolo fa impallidire quello delle finte epidemie: il settore registrava un fatturato di 36 miliardi di dollari già nel 2003 e attualmente più di 40 milioni di statunitensi sono in cura.
Sul Corriere del 7 febbraio scorso Adriana Bazzi scriveva: «Le industrie hanno tutto l'interesse a promuovere l'ipotesi colesterolo, ad allargare la quota di consumatori di farmaci anticolesterolo (lo hanno fatto riducendo sempre di più i livelli normali nel sangue in modo da creare più "malati" come ha già denunciato il British Medical Journal) e a giocare sull'ipotesi colesterolo buono (da aumentare) e cattivo (da ridurre) per proporre nuove molecole dal momento che stanno scadendo i brevetti di quelle vecchie».
Bazzi si riferisce al 2004, quando oltreoceano vennero definite le "nuove linee guida" che crearono, dal nulla, ben 7 milioni di malati in più. Quando scoppiò la polemica venne fuori che ben 6 dei 9 membri che formavano la commissione erano noti per le loro frequentazioni con le case farmaceutiche e si scoprì che l'autore di uno studio relativo ai problemi cardiovascolari era collegato con ben 20 compagnie che producono medicinali e "attrezzature" per il cuore. Conflitto d'interesse? Non scherziamo.
Nel mondo anglosassone il fatto che gli studi sull'efficacia di un farmaco vengano finanziati dal suo stesso produttore non desta scandalo, basta che venga dichiarato pubblicamente. Per sapere come va dalle nostre parti, dove in genere il conflitto d'interesse non viene nemmeno esplicitato, consigliamo la lettura del bellissimo libro scritto da Marco Bobbio nel 2004: "Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza - Medici e industria".
I codici alimentari
Ti sei mai fermato a leggere un articolo di un giornale che parla di sostanze con nomi illeggibili o addirittura indecifrabili? E951, E221, E513. . . no, non sto dando i numeri, ti elenco solamente alcuni “codici” che potresti trovare sull’etichetta di qualche prodotto che consumi abitualmente non sapendo che potrebbero danneggiarti la salute. Spero che a questo punto tu non abbia rinunciato a leggere il mio articolo. Adesso cercherò di spiegare al meglio perché bisogna fare attenzione a ciò che mangiamo e soprattutto a ciò che diamo da mangiare ai nostri figli. Il primo codice cifrato di cui voglio parlare è E951, così a vederlo sembrerebbe innocuo, vediamo: Aspartame oppure L-alpha-aspartyl-L-phenylalanine-methylester Dolcificante presente nel 90% dei prodotti con dicitura LIGHT o SENZA ZUCCHERO. Questa dicitura viene collocata sulla confezione con orgoglio, a caratteri cubitali in modo che tutti possano vederlo, ben pochi però, dopo che sono stati attratti dalla “leggerezza” del prodotto vanno a verificare qual’è la componente che ha sostituito il vecchio e caro zucchero. L’Aspartame è il dolcificante maggiormente usato nelle bustine che al bar moltissimi usano per dolcificare il caffè, è il dolcificante presente in quasi tutte le gomme da masticare presenti sul mercato, è presente persino nello sciroppo per la tosse che forse (spero di no!) dai a tuo figlio. Ma cerchiamo di capire meglio che cos’è. L’Aspartame è costituito da fenilalanina, acido aspartico e metanolo. Il metanolo, componente dell’aspartame, viene liberato nell’intestino e si trasforma in acido formico e in formaldeide, entrambi questi metaboliti sono tossici. La fenilalanina e l’acido aspartico costituiscono il 90% dell’aspartame e questi aminoacidi, se assunti con l’alimentazione, vengono usati normalmente dal nostro organismo per processi biochimici vitali. Ma quando non sono accompagnati dagli altri amminoacidi diventano neurotossine. L’aspartame si converte cioè in sottoprodotti pericolosi per i quali non esistono contromisure naturali. La quantità di metanolo ingerita grazie all’aspartame è senza precedenti nella storia umana. [1] Nel corso degli anni l’aspartame è stato dimostrato essere dannoso da centinaia di studi, è stato collegato a cecità, problemi neurologici e vascolari, tumori, leucemie, difetti nei neonati e, secondo uno studio recente effettuato dallo scienziato Guadalupe Garcia dell’Università di Queretaro, l’aspartame aumenta notevolmente anche il rischio di aborto. Vorrei però portare alla tua attenzione il secondo studio effettuato dalla Fondazione Europa Ramazzini presentato il 23 aprile 2007 a New York dove il Dottor Soffritti ha ricevuto il Premio Selikoff per i suoi studi sull’aspartame. I risultati della ricerca dimostrano che l’aspartame è cancerogeno anche usato in piccole dosi, causa un aumento significativo di linfomi, leucemie e tumori maligni. A questo punto credo che l’unica domanda da farsi sia perchè questo dolcificante è ancora sul mercato? La risposta credo che sia risaputa. Gli interessi economici delle multinazionali sono ben più importanti della nostra salute. Continuiamo analizzando un altro additivo che troviamo spesso e malvolentieri: Sodio Benzoato Antimicrobico presente nella maionese e nelle bibite analcoliche con meno del 12% di succo (es. coca cola light, fanta, sprite, nestea, ecc) Quando utilizzato in soluzioni acide, il sodio benzoato si converte in acido benzoico, una sostanza particolarmente tossica. Ma la sua pericolosità non finisce qui. Secondo uno studio del professor Peter Piper, del dipartimento di biologia molecolare e biotecnologie dell’Università di Sheffield, il sodio benzoato testato su cellule vive di lieviti distrugge aree del DNA nelle stazioni energetiche cellulari, i mitocondri. Egli ha affermato che questa sostanza provoca danni al DNA mitocondriale, sino ad inattivarlo. I mitocondri consumano ossigeno per produrre energia e se danneggiati, come in alcune patologie, le cellule cominciano a non funzionare correttamente. Questi danni al DNA possono essere collegati a malattie neuro-degenerative come il Morbo di Parkison e provocano decadimento cellulare precoce. Il professor Piper afferma “La mia preoccupazione concerne soprattutto i bambini, che ne sono grandi consumatori”. Come dargli torto, i bambini sono il nostro futuro, se continuiamo ad intossicarli con additivi, coloranti e dolcificanti di dubbia sicurezza (o dimostrata tossicità) si ritroveranno in un mondo di sofferenze causate da tantissime malattie di dubbia provenienza. Ci sarebbero una montagna di documenti da pubblicare su additivi, coloranti e conservati, credo che sia comunque più importante che le persone, come te e come me inizino a leggere la composizione di tutto ciò che si compra al supermercato, magari girando con un “dizionario” codici E – italiano! Puoi trovare un comodo ed utile depliant tascabile sul nostro sito all’indirizzo: Scarica la lista, mettila nel portafogli o nella borsa ed inizia a capire che cosa compri e consumi abitualmente. L’unico modo per migliorare le condizioni delle generazioni future è quello di far capire ai produttori che non siamo più ciechi di fronte allo scaffale del supermercato e non saremo più disposti a comprare prodotti con ingredienti di dubbia sicurezza. Evitiamo i loro prodotti, solo così i produttori ciechi inizieranno di nuovo a vedere.
Amanda Adams La Leva di Archimede