Ora le cronache parlano di tumulti per il pane, e il mondo intero si chiede perché i prodotti agricoli rincarino così tanto.
Uno studio commissionato dall'Unesco amplia la prospettiva: sostiene che il problema è come si produce cibo, e invita a rimettere al centro i bisogni dell'agricoltura su piccola scala, i sistemi locali, gli ecosiustemi più vulnerabili.
«Il modo di far crescere il cibo deve cambiare radicalmente per meglio servire i poveri e gli affamati, se il mondo vuole far fronte alla crescita della popolazione e al cambiamento del clima evitando rotture sociali e il collasso ambientale», afferma il «Rapporto internazionale sulla scienza e tecnologia agricola per lo sviluppo» (International Assessment of Agricoltural Science and technology for Development). Si tratta del lavoro di oltre 400 scienziati di varie discipline, che hanno lavorato su incarico dell'Unesco sotto la direzione del professor Robert Watson (già presidente del Ipcc, il Comitato intergovernativo sul cambiamento del clima). Il gruppo ha avuto incarico di guardare l'agricoltura come fonte di cibo, nutrimento, salute, servizi ambientali e crescita economica, e come possa fare fronte a sfide globali come il cambiamento del clima e la perdita di biodiversità restando sostenibile e socialmente equa. Perché continuare con il trend attuale di produzione e distribuzione, sottolinea il gruppo, «esaurità le risorse e metterà in pericolo il futuro dell'umanità».
L'agricoltura moderna ha portato aumenti significativi dei raccolti agricoli mondiali, nota lo studio, e ha anche abbassato i costi della produzione su larga scala (è ben per questo che a partire dagli anni '60 del secolo scorso grandi paesi popolosi e rurali hanno conquistato l'autosufficenza alimentare, ed al mondo intero è sembrato che la fame fosse un problema del passato). Ma il costo ambientale di questo successo è altissimo, e i benefici mal distribuiti: la parte più povera della popolazione mondiale è quella che ha pagato più prezzi e ne ha tratto minor beneficio. I piccoli agricoltori, braccianti, le comunità rurali e l'ambiente sono i perdenti. «Il mondo oggi è un luogo di sviluppo diseguale, uso insostenibile delle risorse naturali, impatto crescente del cambiamento del clima e persistente povertà e malnutrizione».
Il rapporto avverte che non ci sono soluzioni «magiche» (vedi ingegneria genetica). «E' l'ora di ripensare profondamente il ruolo dei saperi agricoli, della scienza e della tecnologia», si legge nel rapporto. Come? Tornando a puntare sull'agricoltura su piccola scala, risponde il gruppo di scienziati. «Questo significa migliorare il tenore di vita rurale, emancipare la parte più marginalizzata dei produttori agricoli, sostenere le risorse naturali, valorizzare i molteplici benefici forniti dagli ecosistemi, considerare i diversi saperi, dare un equo accesso di mercato ai prodotti agricoli». Il rapporto se la prende con i sistemi di sussidi e i meccanismi del commercio internazionale: «I più poveri tra i paesi in via di sviluppo sono i perdenti netti nei vari scenari di liberalizzazione del commercio», sottolineava Robert Watson presentando lo studio.
Il rapporto fa un elogio dell'agricoltura tradizionale: «Molte innovazioni efficaci sono generate localmente, sulla base dei saperi e esperienze di lcomunità locali e indigene più che sulla ricerca scientifica formale». La possibilità di brevettare modifiche genetiche può attirare finanziamenti nella ricerca agricola, nota il rapporto: ma porta anche a concentrare la proprietà delle risorse, fa salire i costi, deprime la ricerca indipendente, «mina le pratiche agricole locali come il mettere da parte e scambiare i semi, di grande importanza nei paesi in via di sviluppo».
E se bisogna produrre più cibo, bisogna anche proteggere terreni, acqua, foreste, biodiversità, conclude Watson: «Continuare a puntare solo sulla produzione devasta il "capitale" agricolo e ci lascerà con un pianeta sempre più degradato e diviso».
di Marina Forti
19 aprile 2008
L'agricoltura locale ci salverà
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