Per coloro i quali non hanno ancora ben chiaro il meccanismo della creazione dal nulla di denaro da parte delle banche commerciali (una delle derivazioni del signoraggio)pubblichiamo una e-mail del nostro amico Marco Saba sull’affare Telecom:Dunque senti questa: Marco Tronchetti si fa prestare 42 miliardi di euro dalle banche (debitoTelecom) per comprarsi la Telecom. Si chiama privatizzazione, ma è un riciclaggio di signoraggio.
Le banche creano 42 miliardi dal nulla (pescando nel potere d'acquisto di tutti noi) e indebitanoTelecom per cui poi con le bollette del monopolio della borchia (90% di tutte le linee fisse), ildebito viene ripagato da questo 90% di utenti (sempre noi).I 42 miliardi Telecom sono invisibili al PIL, poiché si tratta di operazioni finanziarie, per l'appuntonon contate nel PIL (quindi le speculazioni bancarie non contribuiscono alla crescita del PIL tantorichiesta dalla BCE... ecco perché se ne parla spesso come del denaro invisibile, del denaro buconero:
ricordate la società BUCONERO dell'affare Parmalat?)
Quindi, *Tronchetti + banche* rubano rendite monetarie al popolo sovrano, e se le rifanno purepagare sotto forma di bollette Telecom!
Ora la società è decotta perché è decotta la catena di Sant'Antonio della proprietà basata sull'ariafritta (Olimpia ed altre olimpiaggini).
Conoscendo i nostri ladri, cosa s'inventeranno ancora? Messa in liquidazione di Telecom, consuccessivo acquisto all'incanto, a prezzi da Zimbabwe, da parte della solita cordata degli amicidegli amici. Finanziati, ovviamente, dalle banche. In secula seculorum.E tu continuerai a pagare la bolletta telefonica maggiorata alle banche, ripianando un debito fasullo.Evviva l'Italia!
Triste vero? ma purtroppo è la sacrosanta verità. Quindi queste privatizzazioni, lette con l’ottica del signoraggio, rivelano tutto lo squallore della situazione attuale: le banche“prestano” il denaro all’acquisitore (amico dell’amico) il quale non si indebita lui personalmente, ma fa ricadere il tutto sulla società da acquisire che essendo di fatto in monopolio, ripaga tranquillamente il debito con le bollette nel caso Telecom oppure deipedaggi autostradali nel caso di autostrade e nel frattempo già che ci siamo, risolve anchequalche debituccio personale. Quindi i cittadini sono stati “truffati” ben quattro volte:
• uno perché società e banche statali costruite con i soldi pubblici (leggi dei cittadini)sono state svendute a prezzi da saldi di fine stagione, come il Banco di Napoli(s)venduto dallo stato a 32 ml di euro e rivenduto dopo pochi anni a ben 1000 ml dieuro!
• due perchè le banche finanziano le acquisizioni con il denaro virtuale ovvero creato da un click del computer (che i vostri computer non sono buoni e che questi giochi di prestigio sono appannaggio solo delle banche!)
• Tre perché questi soldi apparsi miracolosamente dal nulla aumentano l’inflazione reale e fanno aumentare i prezzi (leggi diminuiscono il potere di acquisto);
Quattro perché il debito ce lo fanno ripagare a noi (non ricordiamo più se per la seconda o terza volta) con le bollette ed i pedaggi che non diminuiscono mai, e comepotrebbero se servono per mandare avanti la baracca, tra cui gli stipendi d’oro e lestock option dei super manager e per ripagare il debito?
Poi le banche finanziatrici si ritirano, incassano soldi veri e via pronti per la prossima acquisizione (leggi via Trochetti & c. e dentro un altro amico dell’amico dell’amico…).
tratto da centrofondi.it
29 settembre 2006
Fare debiti con i soldi degli altri: TELECOM
28 settembre 2006
I conti dell'operazione Libano
Pomero si avventura sul conto della missione in Libano snocciolando dati che sono da verificare. Non si può fare dell'erba tutto un fascio ma i dati sono questi.
La portaerei Garibaldi costa 3 milioni di euro al mese, un maresciallo costa 12mila euro... Fatti i conti, con la missione libanese le spese per la difesa diventano uguali all'ultima finanziaria.
«Sono passate due settimane da quando, sul ponte di volo di Nave Garibaldi, ho rivolto il saluto al contingente che aveva iniziato a muoversi alla volta delle coste libanesi»: così ha ricordato il ministro della difesa Parisi nella visita in Libano il 12 settembre. Non ha però detto agli italiani che in queste due settimane, solo per tenere in navigazione la portaerei Garibaldi, si è speso oltre un milione e mezzo di euro. Il suo costo mensile di esercizio ammonta a 3.080.650 euro, equivalenti a 5,8 miliardi delle vecchie lire. Questo e altri dati sulla spesa per la missione sono contenuti nel disegno di legge, presentato dal governo e approvato dalle commissioni esteri e difesa della Camera.
Solo come «costo esercizio mezzi» si prevede in settembre-ottobre, oltre a quella per la Garibaldi, una spesa mensile di 1,2 milioni per i mezzi blindati e 1,8 per gli aerei che, insieme ad altre voci, portano il totale mensile a 12,6 milioni di euro. Aggiungendo le spese per alloggiamento, viveri e servizi, il «totale spese funzionamento» supera i 14 milioni di euro mensili. Vi sono poi gli «oneri una tantum», soprattutto per l'«approntamento in patria della marina militare», che ammontano a 15,5 milioni.
Molto maggiori sono le spese per il personale. La «Early entry force» conta 295 ufficiali, 1.250 sottufficiali e 951 volontari. Essa è quindi composta per circa il 62% da ufficiali e sottufficiali, ossia dal personale meglio pagato. Ad esempio un maresciallo capo, la cui retribuzione mensile ammonta a circa 2.900 euro, costa quale «trattamento economico aggiuntivo» per la missione in Libano 9.450 euro al mese. Questo sottufficiale costa quindi allo Stato oltre 12mila euro al mese. Complessivamente, solo per il «trattamento di missione» dei 2.496 militari in Libano, si prevede una spesa mensile di 22,3 milioni.
Il costo mensile della missione, nel periodo settembre-ottobre, sfiora quindi i 52 milioni di euro. Salirà ancora quando, a novembre, subentrerà la «Follow on force», composta da 2.680 militari: 335 ufficiali, 1.290 sottufficiali e 1.055 volontari. Solo per il loro «trattamento di missione» si spenderanno circa 24 milioni di euro al mese che, con gli oltre 14 del «costo esercizio mezzi», porteranno il totale a oltre 38 milioni mensili. Si aggiungeranno 18,4 milioni per gli oneri, inspiegabilmente definiti anche in questo caso «una tantum». Il costo della missione salirà così in novembre di 4,6 milioni, arrivando a 56,6 milioni mensili. Per dicembre invece, abolita l'«una tantum», dovrebbe scendere a circa 35 milioni mensili. Questo nelle previsioni. Ma se la situazione dovesse complicarsi, il costo sarebbe sicuramente maggiore.
La missione in Libano e le altre (soprattutto in Afghanistan) comportano, oltre alla spesa immediata, un costo indotto. L'Italia impegna all'estero nell'arco di un anno oltre 30mila militari su base rotazionale, più 3mila pronti a intervenire. Ma per mantenere e potenziare tale capacità occorre assumersi ulteriori oneri anche in termini di bilancio: come ha sottolineato Parisi, vi è una «carenza di risorse» che può incidere sulle capacità operative delle forze armate, il cui personale assorbe oltre il 70% del bilancio della difesa. Ciò può portare a «inaccettabili situazioni debitorie nei programmi internazionali», come quello del caccia statunitense Jsf cui partecipa l'Italia. Occorre quindi «un flusso di risorse costante e coerente con gli obiettivi», che farà crescere la spesa militare italiana, già al 7° posto mondiale con oltre 27 miliardi di dollari annui in valore corrente e 30 a parità di potere d'acquisto.
Sommando la spesa militare al costo delle missioni si raggiunge una cifra annua equivalente a quella della finanziaria 2006. E poiché i soldi (denaro pubblico) da qualche parte devono venir fuori, occorre «tagliare» in altri settori. Come hanno documentato Cgil Cisl e Uil, la finanziaria 2006 prevede tagli alle spese sociali di 12,7 miliardi, che colpiscono soprattutto sanità ed enti locali. Si mettono così a rischio i servizi erogati ai cittadini nonché posti di lavoro. Sono previsti inoltre tagli per 27 miliardi per la costruzione e l'ammodernamento delle reti metropolitane, tranvie e passanti ferroviari. Nella finanziaria si propone inoltre, per il 2006, un drastico taglio dei fondi destinati agli aiuti per i paesi in via di sviluppo, 152 milioni di euro in meno rispetto ai 552 stanziati nel 2005. Siamo così intorno allo 0,1% del pil rispetto a un obiettivo dell'1%. E mentre nella finanziaria 2006 si destina un miliardo di euro per la «proroga» delle missioni militari all'estero, si stanziano nientemeno che 30 milioni annui per la cancellazione del debito dei paesi poveri altamente indebitati. Quanto si spende in due settimane e mezzo per la missione militare in Libano.
27 settembre 2006
Hemingway: ho ucciso con gioia!
Tutto sommato, a Günter Grass è andata bene. Potremmo definirlo il mancato incontro fatale tra due futuri premi Nobel. Se nell'aprile 1945, quando venne fatto prigioniero dagli americani, l'allora giovanissimo Waffen-SS si fosse imbattuto in Ernest Hemingway, probabilmente avrebbe fatto la misera fine di tanti suoi commilitoni. Tanti quanti? Centoventidue, almeno secondo i calcoli (veri o immaginari) dello scrittore americano. Tutti prigionieri di guerra tedeschi, disarmati. Crauti, come li definiva con disprezzo, che l'autore di Addio alle armi uccise, a suo dire provandoci gusto, durante l'anno nel quale accompagnò le truppe alleate come reporter di guerra.
Un'altra delle tante spacconerie di Hemingway? L'ennesima esagerazione di un uomo «larger than life», più grande della vita, appassionato di caccia grossa come di corride, patito delle armi e del pugilato, consumatore smodato di donne, alcol e sigari? Può darsi. E Rainer Schmitz non lo esclude neppure. Ma poiché carta canta, il giornalista tedesco ha voluto attirare l'attenzione su passaggi fin qui trascurati di alcune lettere dello scrittore, due di esse peraltro inedite in Germania. Appena uscito per i tipi di Eichborn, il suo libro Cosa è successo al teschio di Schiller? Tutto quello che non sapete sulla letteratura
è una raccolta ragionata e molto ben documentata di episodi, aneddoti e curiosità poco noti o del tutto sconosciuti su autori celebri.
Hemingway si unì (embedded, come si direbbe oggi) al 22esimo reggimento della IV Divisione di fanteria americana col grado di ufficiale. In realtà, non doveva soltanto raccontare le gesta degli alleati; in quel periodo infatti lavorava già anche per l'Oss, il servizio d'intelligence antesignano della Cia. Grazie alla sua perfetta conoscenza del francese, lo scrittore fu il governatore di fatto di Rambouillet, alle porte di Parigi, dove tranquillizzò la popolazione, gestì il villaggio e soprattutto interrogò centinaia di prigionieri tedeschi. «Qui è molto piacevole e divertente — scrisse nell'autunno del 1944 a Mary Welsh, che sarebbe diventata la sua quarta e ultima moglie —, molti morti, bottino tedesco, tante sparatorie e ogni tipo di battaglia».
La lettera incriminata, quella che secondo Schmitz non ha mai avuto l'attenzione che avrebbe meritato, è quella che Hemingway scrisse il 27 agosto 1949, quattro anni dopo la fine della guerra, al suo editore, Charles Scribner: «Una volta ho ucciso un crauto-SS particolarmente sfrontato. Al mio avvertimento, che l'avrei abbattuto se non rinunciava ai suoi propositi di fuga, il tipo aveva risposto: "Tu non mi ucciderai. Perché hai paura di farlo e appartieni a una razza di bastardi degenerati. Inoltre sarebbe in violazione della Convenzione di Ginevra". Ti sbagli, fratello, gli dissi. E sparai tre volte, mirando allo stomaco. Quando quello cadde piegando le ginocchia, gli sparai alla testa. Il cervello schizzò fuori dalla bocca o dal naso, credo».
Meno di un anno dopo, il 2 giugno 1950, l'autore di Per chi suona la campana torna a evocare la sua esperienza di guerra in una lettera ad Arthur Mizener, docente di letteratura alla Cornell University. È la corrispondenza dove tira il macabro bilancio della sua passione omicida: «Ho fatto i calcoli con molta cura e posso dire con precisione di averne uccisi 122». Uno di questi tedeschi, prosegue Hemingway, «era un giovane soldato che stava tentando di fuggire in bicicletta e che aveva all'incirca l'età di mio figlio Patrick». Questi era nato nel 1928, quindi la vittima doveva avere 16 o 17 anni. A Mizener, lo scrittore spiega di avergli «sparato alle spalle, con un M1». La pallottola, calibro 30, lo aveva colpito al fegato.
Questa lettera non era mai stata pubblicata prima d'ora in Germania. Nessun testimone si è mai appalesato, per confermare queste ammissioni di Hemingway. Inoltre, come ammette Schmitz, «nelle sue lettere il premio Nobel è sempre stato incline all'esagerazione, a nutrire il mito del suo machismo». Ma anche i suoi ammiratori concedono che durante la Seconda guerra mondiale egli abbia probabilmente violato la Convenzione di Ginevra. E soprattutto, si chiede l'autore, «perché quest'ammissione senza alcuna necessità?». Di certo, fa notare Schmitz, nessuno finora ha indagato seriamente negli archivi di guerra, per far luce su questo aspetto non marginale della vita di uno dei grandi della letteratura mondiale di ogni tempo.
Indizi sul fascino che l'atto di uccidere esercitasse su Hemingway se ne possono naturalmente trovare a iosa. «Mi piace sparare con un fucile, mi piace uccidere e l'Africa è il posto dove farlo», scrive nella primavera 1933 a Janet Flanner. Parlava sicuramente di animali, quelli abbattuti durante il safari di due mesi nello stesso anno, che poi avrebbe immortalato in Verdi colline d'Africa.
Ma più di ogni altro, si può ricordare l'attacco di un articolo a firma Ernest Hemingway apparso su Esquire nell'aprile 1936: «Certamente nessuna caccia è paragonabile alla caccia all'uomo e chi abbia cacciato uomini armati abbastanza a lungo e con piacere, dopo non si è mai interessato di null'altro».
Paolo Valentino
26 settembre 2006
Forni a microonde: quale pericolo?
Negli stessi anni '70 iniziarono a comparire anche in Europa e Stati Uniti le prime ricerche che mettevano in dubbio la sicurezza dei cibi cotti a microonde. Studi istologici su broccoli e carote cotti con microonde rilevarono che la struttura molecolare dei nutrienti veniva deformata a tal punto da distruggere le pareti cellulari. Da allora fino al nostri giorni gli studi condotti sono stati diversi (vedi box) e gli aspetti più controversi che sono stati evidenziati riguardano:
- l'emissione di microonde dagli apparecchi;
- i rischi igienici dovuti ad una cottura non omogenea;
- la migrazione di sostanze tossiche contenute negli involucri all'interno dei cibi;
- un'alterazione anormale delle sostanze nutritive degli alimenti; - un'alterazione cancerosa del sangue in seguito al consumo di questi alimenti.
Nonostante il fatto che nei vari paesi siano stati stabiliti dei valori limite di esposizione alle microonde, nulla è stato fatto invece per ammonire l'utilizzatore sui possibili rischi evidenziati da questi studi. Questi valori limite infatti si riferiscono esclusivamente alle emissioni di microonde verso l'esterno del forno e non alla quantità di radiazioni cui sono sottoposti i cibi all'interno dei forni.
Gli effetti sul sangue
Lo studio più significativo sui rischi legati all'assunzione di cibi cotti a microonde rimane quello del professor Bernard Blanc dell'Università di Losanna e del dottor Hans U. Hertel, uno scienziato indipendente con una lunga esperienza nell'industria alimentare e farmaceutica. Nel 1989 Blanc e Hertel proposero alla Swiss Natural Fund, insieme all'Università di Losanna, una ricerca riguardante gli effetti sull’uomo del cibo cotto con microonde, ma fu rifiutata. La ricerca fu per questo ridimensionata e condotta con fondi privati.
Furono testati otto volontari, che per alcuni mesi seguirono una dieta macrobiotica e ai quali ogni 15 giorni vennero somministrati a stomaco vuoto, alimenti crudi, cotti con metodi convenzionali, scongelati o cotti in un forno a microonde.
Immediatamente prima dei pasti e poi 15 e 120 minuti dopo, avveniva prelevi di sangue.
E’ importante sottolineare che i volontari non erano a conoscenza del metodo di cottura del loro cibo e quindi è da escludere un condizionamento psicosomatico.
Come si può osservare nel grafici, le analisi rilevarono differenze significative tra gli effetti sul sangue del cibo cotto a microonde e quelli del cibo cotto con metodi convenzionale
In particolare venne riscontrata una riduzione significativa dell’emoglobina e una e un aumento dell’ematocrito, dei leucociti e del colesterolo. Inoltre, furono evidenziati alterazioni della membrana cellulare.
«I cibi cotti con microonde – si legge nello studio – paragonati a quelli non irradiati, causano cambiamenti nel sangue delle persone testate, tali da indicare l'inizio di un processo patologico, proprio come nel caso di un iniziale processo canceroso». Ricorrendo alla bioluminescenza è stato inoltre registrato il «passaggio per induzione dall’energia delle microonde dai cibi trattati al corpo umano»
Raramente una ricerca ha scatenato una simile bufera: il professor Blanc si dissociò quasi subito dalle conclusioni dello studio, temendo per la sicurezza della propria famiglia oltre che del suo posto di lavoro. Poco dopo la FEA , associazione dei rivenditori di elettrodomestici a Zurigo, denunciò il dottor Hertel, e il 19 marzo 1993 la Corte Cantonale di Berna gli vietò di divulgare le sue conclusioni, pena una sanzione di 5000 franchi svizzeri; verdetto successivamente ribadito dalla Corte federale a Losanna. Nel 1998, la Corte europea per i diritti umani di Strasburgo riconobbe in questo verdetto una grave violazione della libertà di espressione e condannò la Svizzera a un risarcimento di 40.000 franchi (un riconoscimento irrisorio rispetto alle spese processuali e ai danni economici e professionali subiti da Hertel)
Da quel momento la Corte federale stabilì che Hertel poteva sì divulgare le proprie conclusioni, ma la condizione di dichiararle non scientificamente provate.
Siamo liberi di scegliere
Da allora, un’inspiegabile cortina di silenzio è calata sulla questione dei forni a microonde. Come sempre, quando ci sono grandi interessi in ballo, la verità diventa difficilissima da trovare, sommersa com'è da fortissime pressioni che esercitano la loro influenza non solo sui mass media, ma soprattutto sul mondo scientifico e le istituzioni ad esso legate. Gli scienziati che hanno l'onestà intellettuale e il coraggio di scagliarsi contro questa logica si contano sulla punta delle dita e nella maggior parte dei casi vengono minacciati, denunciati, diffamati e perseguitati in ogni modo possibile, come dimostra la storia di Hertel. Ma finché queste persone avranno modo di parlare, noi avremo modo di ascoltare.
E di scegliere.
Negli stessi anni '70 iniziarono a comparire anche in Europa e Stati Uniti le prime ricerche che mettevano in dubbio la sicurezza dei cibi cotti a microonde. Studi istologici su broccoli e carote cotti con microonde rilevarono che la struttura molecolare dei nutrienti veniva deformata a tal punto da distruggere le pareti cellulari. Da allora fino al nostri giorni gli studi condotti sono stati diversi (vedi box) e gli aspetti più controversi che sono stati evidenziati riguardano:
- l'emissione di microonde dagli apparecchi;
- i rischi igienici dovuti ad una cottura non omogenea;
- la migrazione di sostanze tossiche contenute negli involucri all'interno dei cibi;
- un'alterazione anormale delle sostanze nutritive degli alimenti; - un'alterazione cancerosa del sangue in seguito al consumo di questi alimenti.
Nonostante il fatto che nei vari paesi siano stati stabiliti dei valori limite di esposizione alle microonde, nulla è stato fatto invece per ammonire l'utilizzatore sui possibili rischi evidenziati da questi studi. Questi valori limite infatti si riferiscono esclusivamente alle emissioni di microonde verso l'esterno del forno e non alla quantità di radiazioni cui sono sottoposti i cibi all'interno dei forni.
Gli effetti sul sangue
Lo studio più significativo sui rischi legati all'assunzione di cibi cotti a microonde rimane quello del professor Bernard Blanc dell'Università di Losanna e del dottor Hans U. Hertel, uno scienziato indipendente con una lunga esperienza nell'industria alimentare e farmaceutica. Nel 1989 Blanc e Hertel proposero alla Swiss Natural Fund, insieme all'Università di Losanna, una ricerca riguardante gli effetti sull’uomo del cibo cotto con microonde, ma fu rifiutata. La ricerca fu per questo ridimensionata e condotta con fondi privati.
Furono testati otto volontari, che per alcuni mesi seguirono una dieta macrobiotica e ai quali ogni 15 giorni vennero somministrati a stomaco vuoto, alimenti crudi, cotti con metodi convenzionali, scongelati o cotti in un forno a microonde.
Immediatamente prima dei pasti e poi 15 e 120 minuti dopo, avveniva prelevi di sangue.
E’ importante sottolineare che i volontari non erano a conoscenza del metodo di cottura del loro cibo e quindi è da escludere un condizionamento psicosomatico.
Come si può osservare nel grafici, le analisi rilevarono differenze significative tra gli effetti sul sangue del cibo cotto a microonde e quelli del cibo cotto con metodi convenzionale
In particolare venne riscontrata una riduzione significativa dell’emoglobina e una e un aumento dell’ematocrito, dei leucociti e del colesterolo. Inoltre, furono evidenziati alterazioni della membrana cellulare.
«I cibi cotti con microonde – si legge nello studio – paragonati a quelli non irradiati, causano cambiamenti nel sangue delle persone testate, tali da indicare l'inizio di un processo patologico, proprio come nel caso di un iniziale processo canceroso». Ricorrendo alla bioluminescenza è stato inoltre registrato il «passaggio per induzione dall’energia delle microonde dai cibi trattati al corpo umano»
Raramente una ricerca ha scatenato una simile bufera: il professor Blanc si dissociò quasi subito dalle conclusioni dello studio, temendo per la sicurezza della propria famiglia oltre che del suo posto di lavoro. Poco dopo la FEA , associazione dei rivenditori di elettrodomestici a Zurigo, denunciò il dottor Hertel, e il 19 marzo 1993 la Corte Cantonale di Berna gli vietò di divulgare le sue conclusioni, pena una sanzione di 5000 franchi svizzeri; verdetto successivamente ribadito dalla Corte federale a Losanna. Nel 1998, la Corte europea per i diritti umani di Strasburgo riconobbe in questo verdetto una grave violazione della libertà di espressione e condannò la Svizzera a un risarcimento di 40.000 franchi (un riconoscimento irrisorio rispetto alle spese processuali e ai danni economici e professionali subiti da Hertel).
Da quel momento la Corte federale stabilì che Hertel poteva sì divulgare le proprie conclusioni, ma la condizione di dichiararle non scientificamente provate.
Da allora, un’inspiegabile cortina di silenzio è calata sulla questione dei forni a microonde. Come sempre, quando ci sono grandi interessi in ballo, la verità diventa difficilissima da trovare, sommersa com'è da fortissime pressioni che esercitano la loro influenza non solo sui mass media, ma soprattutto sul mondo scientifico e le istituzioni ad esso legate. Gli scienziati che hanno l'onestà intellettuale e il coraggio di scagliarsi contro questa logica si contano sulla punta delle dita e nella maggior parte dei casi vengono minacciati, denunciati, diffamati e perseguitati in ogni modo possibile, come dimostra la storia di Hertel. Ma finché queste persone avranno modo di parlare, noi avremo modo di ascoltare.
E di scegliere.
Cosa dice la ricerca
1973. P. Czerski e W. M. Leach (Usa) dimostrano che le microonde causano tumori negli animati.
1975. Studi su broccoli e carote cotti a microonde rilevano la deformazione detta struttura molecolare dei nutrienti
1987. Uno studio tedesco dimostra danni irreversibili all'occhio nel caso di una esposizione prolungata
Fìne anni '80. Uno studio della American National Council for radiation protection evidenzia che i figli di donne che usano forni a microonde hanno una maggiore probabilità di malformazioni.
1989. Secondo uno studio condotto a Vienna, cuocere a microonde causa cambiamenti significativi delle proteine del cibo, e in particolare nel latte per neonati
1990. All'Università di Leeds, si evidenzia che la cottura nei forni a microonde non è igienicamente sicura (5)
1992
- La ricerca di Blanc e Hertel, condotta con all’Università di Losanna, mostra un cambiamento significativo nel sangue delle persone che consumano cibo cotto con microonde - Uno studio condotto dal pediatra John A. Kerner dell'Università di Stanford in California, evidenzia che il riscaldamento del latte materno a microonde a più di 72 °C causa una sensibile diminuzione di tutti i fattori antiinfettivi testati
1993. David Bridgman, chinesiologo con molti anni di esperienza, dichiara che «il 99,9% dei miei pazienti con varie forme di allergie si mostra motto sensibile ai cibi cotti a microonde».
1994
- Una ricerca americana dimostra che l'uso di riscaldare avanzi di cibo nel forno a microonde è potenzialmente pericoloso in quanto la cottura non omogenea non garantisce protezione dall’insorgere di salmonella
- Ricerche diverse mostrano che nel latte per neonati riscaldato a microonde si possono modificare degli aminoacidi, causando in tal modo tossicità o un’alterazione del valore nutrizionale
1996. Una ricerca evidenzia la migrazione di particelle di pvc dagli involucri, utilizzati per coprire il cibo durante la cottura con il microonde, al cibo stesso.
2000. La University of California evidenziando la migrazione dagli involucri per microonde della sostanza cancerogena dietilexiladepate in una quantità compresa tra i 200 e 500 ppm (il limite della FDA è di 0.05 ppm). Tra le sostanze migrate vengono individuate anche xenoestrogeni, sostanze legate a diminuzione di spermatozoi negli uomini e tumore al seno nelle donne.
Nicholas Bawtree
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Ciao,
un saluto a te che mi conosci di persona,
ma, anche un saluto a te che non mi conosci.
Questo è il mio spazio web personale dove pubblico storie ed argomenti per l'alimentazione ed il benessere.
Per approfondimenti, segnalazioni, link ed articoli la mia email è
leon.nard1@email.it
25 settembre 2006
Quando la verità è celata dai vigliacchi
Fucili, 1.265.660; mitragliatrici, 38.383; pezzi d'artiglieria di vario calibro, 9.988; carri armati, 970; automezzi, 15.500; Aerei (compresi quelli in riparazione), 4.553; Torpediniere e Cacciatorpediniere, 10; Naviglio minore, 51 unità; Vestiario per numero di capi, 500.000; Cavalli e Muli, 67.600; carburante per veicoli a motore, metri cubi 123.114.
Si tratta di un inventario parziale e riguardante le voci principali. Si devono aggiungere tutte le armi, i mezzi, le munizioni gli equipaggiamenti "recuperati" dalle 51 Divisioni "sicuramente" disarmate e dalle 29 "probabilmente disarmate", come recita il "Rapporto del Capo di Stato Maggiore della Wehrmacht" generale Alfred Jodl.Il Comando Superiore del Sud (d'Italia) germanico segnalò tra i materiali di preda bellica 40.000 tonnellate di munizioni, 13.400 tonnellate di esplosivi, 24.500 tonnellate di materiali del genio, 50.000 tonnellate di apparati vari, 2.500 metri cubi di lubrificanti per motori, 12.119 tonnellate di prodotti chimici, 1.600 tonnellate di metalli non ferrosi oltre a svariate migliaia di tonnellate di materiali sanitari, vestiari, viveri, pellami. E questi dati non rientravano in quelli relativi ai materiali in seguito rinvenuti nei magazzini e in vari depositi delle forze armate italiane, sempre nell'area di competenza del Comando Superiore del Sud. Per avere una idea della massa enorme di materiali che vennero inviati al nord sino al 10 novembre 1943 dal Comando germanico sopra indicato, si consideri che vennero utilizzati 12.034 carri ferroviari e che altri trasporti vennero avviati su strada. Cifra che alla fine di novembre, segnalano i documenti ufficiali tedeschi, venne quasi triplicata.
Il comando Gruppo di Armate germaniche in Italia, segnalò inoltre il reperimento dei seguenti materiali bellici, da aggiungersi a quelli sopra indicati: 55.409 colpi per i vari pezzi di artiglieria, 64.897 bombe per mortai, 3.659.275 colpi per armi portatili e mitragliatrici, 17.735 bombe a mano, 5 tonnellate di mine. Da parte sua la 1^ Divisione da montagna tedesca comunicò di aver catturato, prima dell'attacco a Corfù, 154 pezzi di artiglieria, 750 mitragliatrici,98 mortai, 770 automezzi, 98.900 proietti per artiglierie. 170.000 le tonnellate di stazza lorda delle navi mercantili
prese agli italiani in Egeo.
Non sarà inutile dettagliare che nel totale dei materiali bellici di cui i tedeschi si impadronirono dopo il dissolvimento del regio esercito, vi furono 1.173 cannoni controcarro, 1.581 pezzi contraerei, ben 8.736 mortai, 333.069.000 sigari e sigarette, 672.000 giubbe a vento, 783.000 farsetti a maglia, 592.100 paia dì pantaloni, 2.064.100 camicie, 3.388.200 paia di scarpe, 5.251.500 paia di calze. E, ancora, 14.000 treni di pneumatici, 140.000 rotoli di filo spinato, etc. Il tutto in depositi e magazzini. Nel totale delle mitragliatrici italiane di preda bellica, i tedeschi ne rinvennero più di diecimila nuove, ben disposte nei depositi.La "questione" dei mezzi, dei materiali delle munizioni, degli equipaggiamenti e via dicendo, ha rappresentato nella "letteratura" del dopoguerra il cavallo di battaglia di quanti vennero incaricati di costruire i falsi diffusi a piene mani in un'orgia di disinformazione, distorsione, mistificazione a tutt'oggi in servizio permanente attivo. Le cifre di cui sopra (non elencate nella loro totalità per mancanza di spazio) sono tratte da documenti ufficiali tedeschi rinvenuti dagli alleati dopo l'invasione del territorio germanico e la fine della guerra. Per avere una immagine ancor più eloquente di quello che "non fu fatto" si consideri quanto segue: le industrie italiane ricevettero commesse dall'Alto Comando germanico. Ebbene, dal settembre 1943 alla fine di giugno del 1944 (in otto mesi) tali industrie consegnarono ai germanici 12.000 autocarri, 375 carri armati, 2.200 motori per aerei, 130 velivoli da trasporto, 402 velivoli da caccia, 41 navi da guerra per complessive 20.000 tonnellate di dislocamento, 12 mercantili per 9.000 tonnellate di stazza lorda. Dai documenti tedeschi si apprende che tra le commesse affidate alle industrie italiane, furono di particolare importanza tecnologica quelle assegnate alle industrie elettroniche.
Per concludere questa amara e al tempo stesso umiliante rassegna di dati, si tenga presente che i tedeschi dopo l'8 Settembre 1943 disarmarono 1.007.000 soldati italiani. Quelli internati furono circa 725.000. Cifre certamente non esatte all'unità, ma che configurano lo scenario di una tragedia immane e forniscono la misura del tradimento e al tempo stesso del successo ottenuto, senza combattere, dagli alleati grazie alla congiura dei generali e di quanti li affiancarono.
Per chiudere queste note, ancora due argomenti, non senza sottolineare che l'analisi storica sull'intera vicenda deve ancora essere affrontata e svelata nella sua interezza. E che solo tale analisi potrà rimuovere la crosta di menzogne che soffoca da oltre mezzo secolo la verità. L'8 Settembre è stato il risultato di un cumulo di vicende, tra cui - in primo piano - l'inadeguata, fraudolenta condotta strategica, logistica, delle operazioni militari. Le cifre di cui sopra confermano che i mezzi c'erano, i materiali pure, le potenzialità industriali anche. In realtà le posizioni chiave negli alti comandi erano ricoperte da generali e ammiragli che non vollero combattere e che con tale orientamento - e con le intese con il nemico - determinarono la disfatta.
Gli Alleati, segnatamente gli americani, condussero il negoziato segreto sulla base di quello che un giornalista statunitense, David Brown, definì in un suo articolo sul settimanale "Crusader", un "gigantesco bluff". Sinteticamente: gli alleati nel settembre 1943 non avevano in Mediterraneo che misere 14 Divisioni, di cui soltanto sei, diconsi sei, impiegabili per "future operazioni".
Senza contare quelle germaniche, il regio esercito ne aveva schierate, nel territorio peninsulare, ben 26, di cui più della metà di pronto impiego. E questo, si ripete, senza considerare le forze tedesche presenti e quelle in rinforzo. E' vero che gli alleati avevano la superiorità aerea, ma non si deve dimenticare che la penisola venne conquistata combattendo per venti mesi a terra e dopo una "sosta" forzata (con rilevantissime perdite) di oltre sei mesi tra Monte Lungo, San Pietro Infine, Cassino. E contro le truppe della Rsi e della Wehrmacht.
A Salerno il 9 settembre, presero terra solo quattro divisioni anglo-americane e mancò poco che fossero ricacciate in mare. L'ordine di reimbarco era già stato diramato.
Cosa sarebbe accaduto se a fianco dei tedeschi vi fossero state altre tra le Divisioni italiane dotate di "elevato spirito combattivo"? E quale sarebbe potuto essere l'esito di quello sbarco denominato "Avalanche" se la Flotta italiana fosse intervenuta con le corazzate "Vittorio Veneto", "Littorio" (nome mutato in "Italia" dopo '8 settembre) e la nuovissima nave da battaglia "Roma" e con le loro scorte di incrociatori e caccia? Il rischio che gli alleati corsero ed evitarono solo per la codardia e la pusillanimità di Badoglio lo sottolinea ancora il giornalista americano David Brown.
In quelle cruciali ore in cui Badoglio dopo aver dichiarato che la guerra continuava a fianco dei tedeschi (ai quali erano stati addirittura richieste divisioni di rinforzo per bloccare l'invasione dei nemici anglo-americani), in preda al panico nel timore di essere catturato dai tedeschi, e quando ancora la resa non era stata firmata, faceva sapere agli americani, tramite il generale Castellano, che la precondizione per la firma doveva essere lo sbarco di almeno quindici divisioni alleate, in massima parte tra Civitavecchia e La Spezia, gli Alleati temettero che il loro bluff fosse stato scoperto. Per loro sarebbe stato un disastro di proporzioni gigantesche. David Brown ha scritto: "Per cambiare le sorti di tutto bastava che Badoglio facesse dire: ". E si aggiunga che nel settembre 1943 gli alleati difettavano di portaerei.
L'obiettivo strategico degli alleati, quindi, era la neutralizzazione delle forze armate italiane. Senza tale risultato, senza ha proclamazione dell'armistizio da parte del governo italiano, lo sbarco di Salerno non sarebbe avvenuto alle ore 04.00 del 9 settembre 1943.
Le seicento navi di vario tipo (da mercantili a motozattere, da corazzate a cannoniere) si erano mosse da vari porti, Orano, Algeri, Biserta, Tripoli, Palermo e Termini Imerese. Poco dopo il tramonto dell'8 settembre si riunirono in una zona di mare circa 50 miglia o ovest della zona Salerno-Paestum. Il 9 mattino alle ore 04.00 cominciarono gli sbarchi.
Il giorno 7 i sedici convogli su cui era suddivisa la forza d'attacco vennero sorvolati e localizzati da ricognitori italiani, ma non furono attaccati. L'attacco venne invece portato dopo le 23 di quel giorno da velivoli tedeschi che colarono a picco due mezzi da sbarco. Fra le 20.00 e le 24.00 dell'8 settembre intervennero anche aerosiluranti tedeschi e italiani. Ma ai dodici aerosiluranti italiani venne ordinato di rientrare alle loro basi non appena il generale Santoro, sottocapo di stato maggiore della regia aeronautica, venne a conoscenza della notizia dell'armistizio diramata dalla radio alleata di Algeri e ne ebbe conferma dal comando supremo italiano.
Così le forze armate italiane conclusero la guerra.
Per anni ci hanno propinato la solita storia che l'armistizio è stato firmato perchè non avevamo mezzi idonei per salvare l'Italia dall'invasione degli alleati, balle...
L'ESERCITO, LA MARINA E L'AViaZIONE hanno causato la caduta del fascismo, perchè ai posti guida di queste armi i capi erano per lo più monarchici e filoinglesi.
Jacopo Barbarito
23 settembre 2006
Sigarette: aumenta anche la nicotina
Tutte le marche di tabacco esistenti al mondo hanno aumentato il dosaggio di nicotina presente all’interno di ogni singola sigaretta.
Stiamo parlando del 10% in più rispetto a sei anni fa.
I problemi derivanti da quella che sembra essere una percentuale tuttavia iniqua, possono diventare pericolosi: una così alta presenza di nicotina è di difficile eliminazione dal corpo, con conseguente aumento di rischi tumorali.
Perché è successa una cosa simile? Semplicemente perché le società produttrici di sigarette hanno tutto l’interesse a rendere più “drogati” i propri clienti. Ecco spiegato perché alcune marche superano rispetto a sei anni fa i dosaggi anche del 20%, con punte del 60%.
22 settembre 2006
Made in Danimarca la felicità
Uno studio condotto in 178 paesi da Adrian White, uno scienziato britannico dell'università di Leicester, ha assegnato ai concittadini di Amleto la palma di popolo più felice del mondo davanti a svizzeri, austriaci, islandesi, abitanti delle Bahamas e poi finlandesi e svedesi. Gli italiani sono al cinquantesimo posto, ampiamente preceduti da americani (23) e tedeschi (35), ma davanti a francesi (62) e giapponesi (90).
Lo studio ha risultati molto diversi da quello analogo pubblicato recentemente della londinese «New Economics Foundation», secondo il quale i più felici al mondo sarebbero gli abitanti del minuscolo Stato del Pacifico di Vaunatu, che adesso si ritrovano invece solo al 24.mo posto. La discrepanza è dovuta al fatto che gli studiosi londinesi avevano inserito nelle loro valutazioni, oltre a parametri come l'aspettativa di vita e la sensazione soggettiva di felicità, anche l'uso delle risorse naturali e questo aveva penalizzato le nazioni più industrializzate come la Danimarca, che era solo al 99.mo posto.
Per il nuovo studio, invece, tra i dati fondamentali per essere felici figurano un'ottima assistenza sanitaria, il benessere economico e l'istruzione. «Questo studio ha spazzato via l'idea che il capitalismo getti la gente nell'infelicità», ha dichiarato il professor White, secondo il quale ciò che conta è che funzioni bene. Nel commentare il primato raggiunto dalla Danimarca nella classifica dei paesi più felici, l'ambasciatore danese a Londra Svend Olling ha spiegato che «per la sensazione di felicità dei danesi è sicuramente importante il fatto che ci esistono differenze minime tra ricchi e poveri».
A contendere ai paesi africani le posizione di coda della classifica dove la gente è più infelice, come il Burundi (178), lo Zimbabwe (177) ed il Congo (176), figurano i più poveri paesi dell'est europeo, come la Moldova (175), l'Ucraina (174), l'Armenia (172) e la Georgia (169).
fonte corriere.it
21 settembre 2006
Moggi su Libero
La giornata di ieri è da segnare sul calendario della storia del
giornalismo. Nello stesso giorno Luciano Moggi ha iniziato la sua
collaborazione con "Libero" e il senatore Dl Antonio Polito al
"Foglio". Temiamo che il primo evento oscurerà il secondo,
purtroppo confinato da Ferrara a pagina 2, senza nemmeno lo straccio di
una foto dell'omino Bialetti. Ma l'apporto di entrambi i pensatori
non potrà che giovare al giornalismo e alla Nazione. Per il Polito
Margherito, "Il Foglio" è l'ultima tappa di un lungo
pellegrinaggio dal Pci a Berlusconi, sulle orme di Ferrara, Bondi, Foa
junior e Adornato. Il quale, anni fa, sorprese tutti con un libro
intitolato "Oltre la sinistra", che faceva pensare a una svolta
radicale: invece, oltre la sinistra, Nando aveva trovato il Cavaliere.
Così il Polito delle Libertà, che da comunista divenne blairiano
(soprattutto per la pipa), fondò "Il Riformista" purtroppo
boicottato dai lettori, poi lo lasciò per fare il senatore della
Margherita all'insaputa dei suoi elettori, poi litigò col successore
Paolo Franchi, poi lasciò "Il Riformista" senza che i lettori se
ne accorgessero, poi traslocò a "Europa" senza che i lettori se ne
accorgessero, e ora approda finalmente al giornale di Largo Corsia dei
Servi, che sembra proprio il posto suo.
Lucianone invece è appena agli inizi. La sua conversione al
giornalismo televisivo (su Antenna3) e stampato (su Libero) alla
giovine età di 70 anni è dovuta a indubbi meriti penali, che
potrebbero pure spalancargli un radioso futuro in politica: infatti è
stato squalificato dalla giustizia sportiva perché si sceglieva gli
arbitri e truccava i campionati e, per le stesse ragioni, è indagato
per associazione a delinquere dalla Procura di Napoli. Più che
naturale che, con un simile pedigree, trovasse un posto in prima pagina
su "Libero", che vanta anche un vicedirettore indagato per
favoreggiamento in sequestro di persona (il leggendario Renato Farina)
e una serie di collaboratori con un discreto curriculum (dall'avv.
Taormina, indagato per le false impronte a Cogne, a Gianni De Michelis,
pluripregiudicato per Tangentopoli). Più che un quotidiano, pare una
comunità di recupero. Dev'essere per questo che, pur non
rappresentando alcun gruppo parlamentare, incassa ogni anno svariati
miliardi di finanziamento per l'editoria di partito: è un servizio
sociale che aiuta i devianti a reinserirsi. E scopre pure nuovi
talenti, perché Moggi, con la penna in mano, è anche meglio di quando
maneggiava fischietti e orologi. «Mi corre l'obbligo di ringraziare
Feltri», «le mie non saranno sentenze ma soltanto un'attenta
disamina dei valori che già ci sono», «Pizarro è la ciliegina sulla
torta», «Berlusconi, Galliani e Braida non si discutono», «il Milan
è l'avversario principe», mentre Lazio e Fiorentina devono darsi un
«obiettivo principe: quello di non retrocedere», nel qual caso
«avranno possibilità di salvezza».
Chi l'avrebbe mai detto? Guarda un po', alle volte, cosa
t'inventa un genio del pallone: per salvarsi bisogna porsi
l'obiettivo (principe) di non retrocedere. Poi dicono che il calcio
non ha più bisogno di Moggi. Per ulteriori delucidazioni - informa
Feltri - «i lettori di "Libero" potranno interagire con Moggi
inviando direttamente domande all'indirizzo mail
luciano.moggi@libero-news.it». Un'opportunità da non sprecare,
anche per i lettori dell'Unità: scrivetegli tutto quel che pensate
di lui e della sua abitudine, purtroppo interrotta sul più bello, di
pilotare gli arbitraggi e taroccare le partite.
Di arbitri comunque parla lui stesso, in coda al suo articolo: «Gli
arbitri lasciateli lavorare, andare sereni sul terreno di gioco. Sono
semplici uomini e possono sbagliare: questo è il bello e il brutto del
calcio». Ecco, questo è importante. Se, Dio non voglia, foste tentati
di prendere un arbitro che non vi ha dato un rigore inesistente e di
chiuderlo nello spogliatoio, vergognatevi e arrossite: ma chi vi
credete di essere?
PS. Avvertenza per gli arbitri rimasti eventualmente chiusi nello
spogliatoio: scrivete a luciano.moggi@libero-news.it, le chiavi le ha
sempre lui.
di Marco Travaglio
20 settembre 2006
La Coca Cola è tossica ?
Adesso l'azienda controbatte citando a sua volta l'amministrazione dello stato indiano che ha proibito la vendita del prodotto su tutto il territorio. L'udienza è fissata per lunedì prossimo davanti all'Alta Corte di Kerala. La stessa che la settimana scorsa aveva dato un mese di tempo a Coca Cola per rivelare gli ingredienti che la compongono.
La querelle giudiziaria ha preso il via dopo i risultati di alcuni test di una associazione ambientalista che avevano rilevato un'alta presenza di pesticidi nella bevanda. La Coca Cola ha affermato di aver effettuato a sua volta delle analisi, che avrebbero dato esito negativo. Secondo la società americana, le autorità di Kerala si sarebbero però rifiutate di prendere in considerazione i risultati di questi test. E così il Kerala, insieme ad altri cinque dei ventinove stati che compongono la federazione indiana, ha imposto restrizioni sulla vendita delle bevande della compagnia, coinvolgendo anche la Pepsi.
Coca Cola si difende giudicando il provvedimento "iniquo, arbitrario, ingiustificato e privo di base legale". Ma oltre al danno all'immagine e il calo delle vendite causato dalle restrizioni esiste un altro problema di natura economica: sia Coca Cola che Pepsi hanno impianti di imbottigliamento sul territorio indiano. Lo stabilimento della Coca Cola è chiuso dal marzo 2004, dopo che i residenti dell'area circostante avevano denunciato fenomeni di inquinamento e un impoverimento delle risorse idriche.
Non resta da attendere che il giudizio della Corte Suprema indiana e l'eventuale rivelazione di uno dei segreti industriali meglio custoditi: la ricetta della bevanda gassata più famosa del mondo.
fonte la republica.it
19 settembre 2006
La Guardiagrele di Giacinto Auriti
È trascorso ormai più di un mese dalla morte del prof. Giacinto Auriti, avvenuta l’11 agosto di quest’anno e credo che sia giusto ricordare ancora il Genio, consentitemi questa espressione, poichè effettuò, a Guardiagrele (CH) sua città natale in Abruzzo, un esperimento che ebbe enorme successo salvo poi che l’iniziativa fu, subdolamente, interrotta dalla Procura di Chieti su denuncia non solo di alcuni commercianti locali, ma anche su pressioni, guarda caso, della Banca d’Italia.Ricordo i punti essenziali dell’iniziativa.
Il professor Giacinto Auriti alla fine del Luglio 2000, in qualità di fondatore e segretario del SAUS (Sindacato anti-usura) mise in circolazione i SIMEC (simboli econometrici di valore indotto) di esclusiva proprietà del portatore (come è esplicitamente stampato sui biglietti).
Scopo di questo esperimento della teoria del valore indotto (che Auriti ha propugnato per oltre trentacinque anni) era quello di verificare "in corpore vili" che i cittadini possono per convenzione creare il valore della moneta locale senza alcun intervento nè dello Stato nè del sistema bancario; l'obiettivo ultimo era quello di sostituire alla sovranità illegittima della Banca d'Italia la proprietà della moneta, quale prerogativa dello Stato, a favore dei singoli cittadini; ma l’esperimento rappresentò già un successo rilevantissimo, perchè apportò un punto fermo in materia monetaria, ovverosia l'accertamento sul piano pratico e fattuale del principio che il valore è dato alla moneta solo da chi l'accetta (cittadini) sulla base di una convenzione, e non da chi la emette (banca).
Questa affermazione vale ancora di più in relazione al fatto che fu abolita la moneta convertibile in oro ovvero la cd riserva aurea il 15 agosto del 1971 su iniziativa di Richard Nixon storicamente conosciuta come l’abolizione degli accordi di Bretton Woods. In coerenza di quest’ultima affermazione più volte ribadita dal professor Auriti , l’operazione economica svoltasi a Guardiagrele, a detta dei quotidiani di quel periodo, rivitalizzò il commercio e quindi la critica economia locale (Guardiagrele risultava il comune con il più alto indice per suicidi da insolvenza). Nella circostanza il professor Auriti rilasciò la seguente dichiarazione piuttosto lapidaria: «È come se avessimo messo del sangue in un corpo dissanguato».
Non può dubitarsi che l'iniziativa del giurista abruzzese costituisce un importante riscontro scientifico di sociologia giuridica ed economica senza precedenti in Italia, soprattutto perché proviene da un'associazione privata (SAUS) e non da un ente dotato di potere pubblico, come potrebbe essere, se non lo Stato, il Comune. Deve anche aggiungersi che l'esperimento di Auriti sollecitò l'attenzione non solo delle forze politiche italiane, oltre che della stampa nazionale, ma anche di numerosi organi di informazione stranieri, a dimostrazione dell'interesse destato dalla nuova rivoluzionaria formula monetaria, che configurò la moneta come strumento di diritto sociale avente contenuto patrimoniale come detta l’art. 42 della costituzione al secondo comma, che riconosce la proprietà per tutti aggiungendo in piena legittimità alla sovranità politica anche quella monetaria in capo alle collettività nazionali.
Auriti realizzò il progetto in due fasi: la prima, che il professore denominò dell'avviamento, servì perché il SIMEC potesse conseguire "quel valore indotto che lo oggettivizza come un bene reale, oggetto di proprietà del portatore", e che lo distinse dalla moneta corrente non più soltanto formalmente, ma anche sostanzialmente. La seconda fase che consentì al Comune di "beneficiare del servizio econometrico predisposto dal SAUS (Sindacato anti-usura), mediante un Assessorato per il Reddito di Cittadinanza, che ebbe il compito di promuovere, anche culturalmente, l'iniziativa, di controllare e attuare la distribuzione dei SIMEC tra i cittadini".
In sostanza il progetto tecnicamente parlando si sviluppò lungo questa direttrice: il cittadino si recava e cambiava il SIMEC alla pari con la lira. Poniamolo così: il cittadino depositava centomila lire (eravamo ancora alla vecchia ma molto più funzionale lira) e prendeva in cambio centomila SIMEC. I centomila SIMEC in mano alla persona che effettuava il cambio diventavano duecentomila cioè il doppio, perché il SIMEC per convenzione valeva il doppio della lira, e siccome lui l'accettava e accettava, nel contempo, anche di partecipare alla convenzione, consentiva la nascita del valore convenzionale che non ha riserva in coerenza all’abolizione della riserva aurea avvenuta con la cessazione degli accordi di Bretton Woods.
Il SIMEC era senza riserva: come, ad esempio, un francobollo d'antiquariato. Il cittadino andava dal commerciante a fare la spesa e quest'ultimo accettava i SIMEC per il doppio perché convenzionalmente valeva il doppio. Quando i cittadini, dunque andavano a fare il cambio questo avveniva per il doppio, perché tutti quanti lo accettavano per il doppio. Tutto questo risultò un vero e proprio volano per l’economia locale tanto più che il professor Auriti sostenne:«La gente è entusiasta perché qui è rinata Guardiagrele. Quando è entrato sul mercato il valore indotto del SIMEC è ritornato il sangue nell'economia», permettendo concretamente ai cittadini di toccare con mano la rinascita economica e sociale del paese che purtroppo crollò in virtù del sequestro dei SIMEC su disposizione della Procura di Chieti e non solo. Credo che questa iniziativa meriti una certa attenzione, poiché potrebbe concretamente trovare una sua riproposizione, su larga scala, dato che i SIMEC sequestrati furono successivamente dissequestrati palesando, nell’occasione, la legittimità e la credibilità di quel famoso esperimento di grande caratura come d’altronde ha dimostrato durante tutto l’arco della sua vita il Genio Auriti lottatore insuperabile del sistema bancario.
di Gianluigi Mucciaccio
17 settembre 2006
Giochi a somma zero e diversa da zero
Il matematico John Von Neumann, quando nel 1944 ha elaborato la teoria dei giochi insieme con l’economista Oskar Morgenstern, ha definito fra l’altro il concetto di “gioco a somma zero” e “gioco a somma diversa da zero”. La teoria dei giochi è un’astrazione matematica, perché tenta di formalizzare ciò che avviene in un gioco in cui c’è qualcuno che vince e qualcuno che perde. Come tale serve da modello concettuale per calcolare strategie in campo economico e politico, ma non tiene conto di tutta la complessità di un gioco, dove oltre alle regole ci sono le psicologie dei giocatori, degli arbitri, del pubblico.
Il gioco a somma zero è una transazione (ovvero un gioco inteso in senso lato) in cui chi vince guadagna ciò che l’altro perde, in modo che la somma di vincite e perdite sia uguale a zero. In un gioco a soldi, per esempio, se vinco 100 il mio avversario perde quei 100, quindi i 100 vinti meno i 100 persi danno 0. Si tratta di una vincita e di una perdita di valore doppio, perché a ciò che uno perde si deve aggiungere una uguale vincita dell’altro.
Anche al di fuori dei giochi strettamente intesi, se pensiamo a due negozi simili l’uno accanto all’altro, ogni vendita in più dell’uno è al tempo stesso una vendita in meno dell’altro.
Un concetto più ampio rispetto alla “somma zero” è quello di win-win, win-lose, lose-lose, dove la vincita e la perdita non necessariamente si equivalgono, anzi in genere il giocatore che ha subito una perdita la ritiene molto superiore a quella che ha inflitto all’avversario, per cui preparerà una ritorsione più pesante. Ne parla Paul Watzlawick a proposito delle relazioni simmetriche e complementari.
In una relazione c’è un dominante (one up) e un sottomesso (one down).
Una relazione è simmetrica quando i due soggetti si comportano nello stesso modo (up-up o down-down), è complementare quando l’uno si comporta in maniera opposta all’altro (up-down, down-up).
In un rapporto di coppia, per esempio, una relazione simmetrica si ha quando uno dei due dice qualcosa di spiacevole all’altro, che risponde nello stesso modo. Uno tira uno schiaffo, l’altro tira un calcio. Occhio per occhio, dente per dente.
La relazione è complementare quando uno è carnefice e l’altro vittima: lui è violento, lei lo giustifica perché si accusa di essere distratta. E’ il rapporto sado-maso, quello di Fantozzi.
In ambedue i casi, se ci si irrigidisce nel tipo di relazione, si genera un’escalation che può sfociare nella tragedia. La risposta violenta per dare soddisfazione deve essere sempre più violenta. Più ci si fa vittime, più l’aguzzino ci tormenta.
Per uscire dall’escalation basta cambiare il tipo di relazione. Se siamo in simmetria basta rispondere in modo complementare, e viceversa. Il violento darà ragione all’altro, il remissivo mostrerà i denti. Naturalmente fare questo è molto difficile, specialmente se il rapporto si è cristallizzato nelle abitudini, ma magari con l’aiuto di una terza persona ci si può riuscire.
Anche nel rapporto capo/collaboratore si generano relazioni simmetriche o complementari, o giochi win-lose. Il capo molto severo vince se esercita un grande controllo. I collaboratori perdono se subiscono il controllo. Ma se fanno un po’ di sabotaggio, approfittando delle distrazioni del capo, si genera un gioco lose-lose. Il leader seduttivo realizza un gioco win-win, perché i collaboratori fanno con piacere ciò che a lui fa piacere, e si genera un team vincente.
Un gioco lose-lose che poi diventa a somma zero è la partita a scacchi, dove si comincia cercando di infliggersi le maggiori perdite, e si finisce con la perdita del re, che rappresenta la vincita di chi ha dato scacco matto.
Un gioco win-win è la danza, o la musica di improvvisazione, dove più i miei partner giocano bene, più gioco meglio anch’io.
Un tipico gioco che vorrebbe essere sempre a somma zero, ma che più spesso è un win-lose o un lose-lose, è la guerra. Nello sport il pugilato è dello stesso tipo. L’annientamento dell’avversario (il ko) mi dà la vittoria totale. Se ambedue ci infliggiamo un po’ di danni si deve fare il calcolo di chi ha subito di più (vittoria ai punti). Tuttavia anche quando vinco per ko esco con le ossa rotte.
Fin dall’antichità si è capito che un gioco a somma zero non è molto conveniente, e si è cercato di suggerire ai generali vittoriosi di non abusare della vittoria, o di fare un bilancio fra guadagni e perdite. E’ celebre la vittoria di Pirro, che lo ha tanto indebolito da causare la sua rovina.
Il saggio non si inorgoglisce nella vittoria e non si abbatte nella sconfitta. Il vile è forte con i deboli e debole con i forti. Nella seconda guerra mondiale gli Stati Uniti hanno capito che dovevano aiutare gli sconfitti a riprendersi, per non averli sulle spalle come parassiti. E’ stato attuato così il Piano Marshall, che ha lanciato la ricostruzione in Italia, con il conseguente boom economico degli anni ’50.
Anche in campo economico e imprenditoriale oggi si cerca di giocare il più possibile con giochi di reciproco vantaggio, anziché con feroce competizione. Il concetto di rete, di distretto industriale, di catena del valore, va oltre il singolo imprenditore e la singola azienda, per creare un insieme di interessi condivisi.
La responsabilità sociale dell’impresa è anch’essa un gioco win-win, dove l’impresa cura i suoi interessi e vince, ma tiene conto anche degli interessi della comunità, che gode dei successi stessi dell’azienda.
Il manager è per sua natura un giocatore a somma diversa da zero, perché vuole vincere, ma vuole che con lui vincano i collaboratori, i fornitori, i clienti, gli stakeholder vari.
di Umberto Santucci
16 settembre 2006
Allarme obesità: l'Asia cambiata dal cibo Usa
Fast food, gelaterie e bevande gassate sul banco degli imputati.
Sconfitti trent'anni fa sul campo di battaglia, gli Stati Uniti hanno conquistato il Vietnam con i loro prodotti e il loro modello di industrializzazione. Hanoi e Ho Chi Minh City evocano ancora il ricordo di città povere, buie, brulicanti di biciclette, assediate da contadini poveri e malnutriti. In realtà il Vietnam sta seguendo un percorso di sviluppo industriale non dissimile da quello delle zone costiere della Cina. Nelle città, ormai zeppe di gelaterie, fast food e venditori di bevande gasate, scooter e automobili stanno sostituendo molte bici. Ma ora il progresso presenta il conto: la rapida diminuzione dell'attività fisica degli abitanti delle città e il crescente consumo di cibi grassi, salati, iperproteici e iperzuccherati - una dieta «americana» che tende a sostituire quella tradizionale, basata su riso e vegetali - ha fatto precipitare il Paese in una vera e propria epidemia di diabete. E nelle famiglie, normalmente composte da persone filiformi, stanno crescendo molti bambini obesi. Non è un problema solo del Vietnam. Obesità e diabete stanno diventando un problema serio in Paesi europei come Italia e Germania e, soprattutto, in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti il fenomeno è ancora più allarmante: l'obesità ormai colpisce un terzo della popolazione, un vero record mondiale. Maè l'Asia il continente nel quale la diffusione dei costumi alimentari dell'Occidente ricco e delle sue catene di fast food sta producendo i danni più gravi.
Quattro dei cinque Paesi maggiormente colpiti dal diabete sono asiatici: Cina, India, Pakistan eGiappone. E la situazione è destinata a peggiorare ulteriormente qui, come nelle altre regioni di nuova industrializzazione, dalla Malesia alla Cambogia. «E' lecito chiamarla la malattia-tsunami: sappiamo che l'onda sta arrivando e non stiamo facendo niente per metterci in salvo », denuncia il professore Pierre Lefebvre, presidente della World Diabetes Foundation. Oggi nel mondo vivono un miliardo di persone obese o sovrappeso: più degli 800 milioni di poveri denutriti, ha denunciato un recente rapporto dell'Onu. Ma, mentre obesità e il diabete alimentare (che, in genere, è ad esso correlato) in Occidente colpiscono soprattutto i poveri (i cibi industriali ricchi di grassi sono anche quelli più a buon mercato), in Asia i pasti nei fast food delle multinazionali Usa, sono ancora l'obiettivo ambito dei benestanti: un simbolo del successo delle nuovi classi medie. Secondo un recente sondaggio, Ronald McDonald, il clown in tuta gialla che accoglie i clienti all' ingresso di ogni McDonald's, è il personaggio più riconoscibile al mondo, dopo Babbo Natale. Il gigante dei fast food - 30 mila ristoranti sparsi in 118 Paesi - è sotto accusa da tempo. Libri, film e siti Internet che demonizzano la multinazionale americana degli hamburger non si contano più, ma il problema non è soloMcDonald's: inCina - dove 160 milioni di cittadini (un adulto su cinque) soffrono di pressione alta e dove il numero di persone in sovrappeso (220 milioni) e di diabetici (20 milioni) è raddoppiato in 10 anni - i McDonald's sono solo 760. In compenso il Paese è invaso da altre catene come Pizza Hut, Domino e Kentucky Fried Chicken: il pollo fritto pubblicizzato con la faccia del «colonnello» barbuto, è stato votato dai cinesi come ilmarchio straniero più popolare.
Ma McDonald's medita il sorpasso: sta negoziando con Sinopec, l'impresa che distribuisce carburante nel Paese, l'apertura di punti vendita di polpette e patatine fritte a fianco alle sue 30 mila pompe di benzina. Se la Cina è nei guai, l'India, dove le persone affette da eccesso di zuccheri nel sangue sono già 31 milioni, sta ancora peggio. Nuova Delhi, dove il 55 per cento delle donne è ormai sovrappeso, è considerata la capitale mondiale del diabete. Ma - avvertono i nutrizionisti - è solo questione di tempo: appena il benessere si diffonderà, cibi occidentali e fast food invaderanno anche gli «slums» e le campagne. Certo, gli Stati Uniti rimangono il Paese col maggior numero di obesi e diabetici,mala bomba sanitaria dell'alimentazione industriale è destinata a esplodere in Asia per tre motivi: 1) La predisposizione genetica di quelle popolazioni. Gli asiatici sono più vulnerabili degli occidentali al diabete perché il loro organismo (che forse porta impressa la memoria di antiche carestie) tende a conservare le calorie assunte in eccesso, anziché bruciarle. 2) Le strutture sanitarie usate negli Usa e in Europa per combattere il diabete e le sue conseguenze (dalla cecità ai problemi vascolari) sono pressoché inesistenti in Asia. 3) La miscela esplosiva alimentata da una nuova cultura occidentale dei consumi che affianca, non sostituisce, quella tradizionale dei Paesi poveri nei quali l'alimentazione eccessiva, la tendenza a ingrassare, sono considerate da secoli benedizioni,manifestazioni di benessere. Il ventre prominente del Budda è tuttora per tutti un simbolo di prosperità.
Le multinazionali esportano obesità, ma non è tutta colpa dei fast food: la gente ingrassa anche dove i costumi alimentari occidentali non si sono ancora diffusi. Il lavoro fisico diminuisce, il reddito aumenta e con esso la disponibilità di proteine. Quelle che hanno strappato centinaia di milioni di persone alla fame. Ma, dopo gli sviluppo «virtuosi », ora arrivano gli effetti perversi degli eccessi. In parte, forse, inevitabili. Anche in Europa la diffusione del benessere ha provocato una rivoluzione alimentare. Ma quel processo si è sviluppato nell'arco di secoli. In Asia sta tutto avvenendo, caoticamente, in una generazione. In Cina e India esiste ormai un vero e proprio «muro del cibo»: città sempre più densamente popolate da obesi, sono circondate da campagne nelle quali non si muore (quasi) più di fame, ma nelle quali i denutriti si contano ancora a centinaia di milioni. L'industria dei fast food e i produttori di cibi industriali temono che prima o poi emergano forme di «dirigismo alimentare». Così giocano d'anticipo proponendo ai consumatori asiatici anche porzioni ridotte. Ma, secondo sociologi e nutrizionisti, nemmeno questo è un rimedio: l'«assaggio » aumenta il desiderio del neoconsumatore che, appena ha un po' di soldi in tasca, va a comprarsi la porzione intera. «La verità - è l'apocalittica conclusione a cui giunge Paul Zinnet, il diabetologo australiano che ha presieduto il Congresso mondiale sull'obesità tenutosi a Sydney all'inizio di settembre - è che siamo di fronte ad un'epidemiamondiale alla quale si presta poca attenzione, ma che in realtà è più grave dell'Aids: un fenomeno che meriterebbe almeno l'attenzione dedicata all'"effetto serra" o all' influenza aviaria».
Massimo Gaggi da corriere.it
15 settembre 2006
I falsi miti americani
WASHINGTON - C'è una falsa santa sull'altare del sogno americano. La prima persona che sbarcò a Ellis Island e da lì si incamminò verso il nuovo mondo, non era quella che da un secolo la nazione celebra. Si chiamava Annie Moore ed era una ragazza irlandese di 15 anni. Con il cappellino premuto in testa contro il vento gelido della baia di New York, Annie raggiunse il West, la frontiera, il Texas e la leggenda.
Dal primo gennaio del 1892, quando "l'isola delle lacrime" fu aperta, la ragazza del West è divenuta monumento, letteratura, sillabario, culto, simbolo e soprattutto mito. Dunque, come tutti miti, un falso. La vera Annie Moore, non andò mai nel West, non raggiunse il Texas, non morì a 46 anni sotto un tram a cavalli come vuole l'agiografia ufficiale. Divenne la moglie di un fornaio a New York dove morì anziana e stanca, dopo avere messo al mondo 11 figli e raschiato la vita dell'emigrante senza soldi. Per centoquattordici anni, gli americani hanno venerato la ragazza sbagliata.
Maledetta internet, e maledetti revisionisti della storia, la ballata americana di Annie Moore si è sfarinata quando una ricercatrice di genealogie dal nome impossibile, uno di quei nomi che i bruschi funzionari di Ellis Island avrebbero certamente storpiato e anglicizzato per pigrizia, la signora Smolenyak Smolenyak (non è un refuso, è nata Smolenyak e ha sposato uno Smolenyak) si è voluta divertire a compiere qualche indagine su Annie Moore. Il New York Times, al quale la Smolenyak in Smolenyak ha raccontato la sua scoperta, spiega che molto presto la ricercatrice cominciò a sospettare che nel puzzle della eroina irlandese ci fosse qualche pezzo che non quadrava. Anche nella approssimativa anagrafe della fine Ottocento, soprattutto in quel Texas da poco divenuto Stato, le impronte della "ragazza del West" andavano in direzione diversa da quella celebrata nel folklore ufficiale.
Può non sembrare una scoperta sconvolgente questo caso di "identità sbagliata" se non fosse che la vita e le avventure della ragazza di Cork, in Irlanda, che un rude marinaio gentiluomo fece passare avanti a tutti nella fila al marinaresco grido di "ladies first", prima le signore, era diventata un santino della mistica americana, come il tè inglese gettato a mare a Boston, il grido di "Gli inglesi stanno arrivando!" del ribelle Paul Revere, o la difesa disperata di Fort Alamo contro i Federales del generale Santa Ana.
La statua di bronzo di Annie, cappellino in testa trattenuto da una mano e borsetta nell'altra dopo settimane di viaggio nella stiva del piroscafo "Nevada", erano vista dai milioni di turisti che compiono il pellegrinaggio della baia di New York sul Ferry, dopo la Statua della Libertà. Era additata ai fanciulli come l'incarnazione dello spirito del pioniere che si avventurava verso il West senz'altro capitale che il proprio coraggio e i propri sogni. Ogni anno, per le feste comandante dell'orgoglio nazionale, i discendenti e pronipoti texani di Annie Moore erano portati a Ellis Island - che nel 1954 chiuse i battenti e dal 1990 funziona soltanto come museo - ed esibiti come gli scrigni del dna che ha fatto l'America. Peccato che fosse la famiglia sbagliata.
Smontare la leggenda è stato facile. La "falsa" Annie Moore già viveva in Texas nel 1880, dunque non poteva essere la "vera" Annie Moore, la prima donna a Ellis Island, e fu inaugurata il primo gennaio del 1892.
La Annie vera aveva avuto un'esistenza assai più lunga, ma anche molto meno glamorous. Non aveva mai attraversato il fiume Hudson, quello che separa Manhattan dal resto del continente verso l'Ovest. Era stata inghiottita da quella New York che risucchiava immigrati per costruire sé stessa, secondo la celebre frase attribuita a un italiano: "Venni in America credendo che le strade fossero lastricate d'oro e ho scoperto che non erano affatto d'oro e che toccava a me lastricarle", mentre le loro donne facevano figli. Annie la cattolica ne aveva fatti 11, dei quali soltanto cinque erano sopravvissuti. Aveva sposato un fornaio nella East Side di Manhattan e morì di vecchiaia, nella propria coraggiosa miseria. Non travolta da un tram a cavalli come l'eroina del melodramma ufficiale, finta e sfortunata.
Naturalmente, è stata la potenza di Internet a infliggere il colpo mortale alla epopea della "fanciulla del West". Quando la Smolenyak, una Ceca di origine, fece appello ad altri curiosi e storici via il Web, in una settimana le arrivarono fotografie, documenti, certificati e reperti che stabilirono senza dubbio l'errore. E' stato un semplice caso di "identità confuse", quali certamente abbondano nel folklore e nella leggende in tutto il mondo? O la vita e i tempi di Annie Moore sono stati volutamente distorti per creare un apologo di propaganda popolare offerto alla mitologia del "sogno americano", come il falso aneddoto del piccolo George Washington "che non diceva mai bugie al papà" o del campione di football Pat Tillman, volontario nella guerra in Afghanistan ucciso dai Taliban, prima che si scoprisse che era stato in realtà abbattuto per errore da un commilitone che gli aveva sparato alle spalle.
Questo della "Annie sbagliata" è probabilmente un errore innocente, un mito gentile e non credo che la statua della ragazza con il cappellino smosso dal vento sarà abbattuta come un falso storico. Non doveva essere poi molto diversa, fisicamente, dalla "Annie vera" e in fondo la sua storia è ancora più bella e commovente dell'altra. Una vita negli slums di New York, tra italiani, irlandesi, polacchi, ebrei dell'est europeo, e 12 milioni di morti di fame che attraversano Ellis Island, richiedeva anche più coraggio che la traversata delle praterie. Tra i pronipoti della "vera Annie", oggi ci sono medici, avvocati, insegnanti e un economista che ha fatto fortuna. Il monumento è falso, ma il sogno americano per la contadina irlandese ha funzionato. Ci sono voluti 114 anni perché funzionasse, ma i poveri devono avere molta pazienza.
Vittorio zucconi da corriere.it
14 settembre 2006
La Coca Cola e la morte
La sala da ballo dell’Hotel du Pont di Wilmington, Delaware, è il ritratto dell’opulenza. Dipinti di dèi greci appaiono sui muri, illuminati da due lampadari di cristallo della grandezza di Mini Coopers. E’ qui che nel mese di aprile la Coca Cola Company ha tenuto il rendezvous per i suoi azionisti, una pratica annuale progettata al fine di accrescere la fiducia dei suoi investitori. Se il meeting è stato simile a quello dello scorso anno allora forse potrebbe sortire l’effetto opposto.
E’ qui che nel mese di aprile la Coca Cola Company ha tenuto il rendezvous per i suoi azionisti, una pratica annuale progettata al fine di accrescere la fiducia dei suoi investitori.
Quando gli azionisti riempirono la sala nell’aprile del 2005 non c’erano buone notizie per la Coca Cola che aveva perso costantemente quote di mercato a favore dei rivali. Uno dopo l’altro sindacalisti, studenti, attivisti e ambientalisti hanno sottolineato la violazione sistematica dei diritti civili da parte della multinazionale in tutto il mondo. Molti hanno concentrato l’attenzione sulla Colombia dove la Coca Cola è accusata di collaborare con gli squadroni della morte del governo paramilitare al fine di torturare ed uccidere i sindacalisti. Altri hanno evidenziato la situazione dell’India dove la Coca Cola ha prosciugato le risorse idriche ed inquinato le fonti. Altri ancora hanno imputato alla compagnia di favorire l’obesità tramite un aggressiva campagna di marketing verso i bambini. In tutto il mondo dozzine di associazioni e più di venti università hanno bandito i prodotti della Coca Cola dalle loro forniture, mentre gli attivisti si sono accaniti contro la compagnia nelle gare di qualificazione per la Coppa del Mondo a Londra e durante le Olimpiadi invernali di Torino. Più che il riemergere di un boicottaggio anti-corporation, la battaglia contro la Coca Cola rappresenta un balzo in avanti nella cooperazione internazionale. La Coca Cola con la sua interfaccia bianca e rossa riconoscibile ovunque da Pechino a Baghdad, è forse il simbolo per eccellenza del dominio economico globale USA.
La Coca Cola fa spallucce nei confronti delle proteste circoscrivendole come provenienti da “un piccolo segmento della popolazione studentesca” dice Ed Potter, direttore della compagnia per le relazioni industriali. Ciò nonostante la Coca Cola ha controbattuto tramite la pubblicità in Tv e sui giornali studenteschi, grazie all’immenso budget per la pubblicità che è cresciuto del 30% negli ultimi due anni arrivando all’incredibile cifra di 2,4 miliardi di dollari.
La mattina del 5 Dicembre 1996, il leader dei sindacalisti Isidro Segundo Gil stava davanti al cancello della fabbrica di imbottigliamento della Coca Cola a Carepa, in Colombia, quando due militari gli si avvicinarono con una motocicletta e gli spararono a morte. “Sin dall’inizio la Coca Cola ha preso posizione non solo per cancellare il sindacato ma anche per eliminare i suoi lavoratori affiliati” ha detto il presidente del SINALTRAINAL Javier Correa durante un discorso in una sua recente apparizione negli States. Nel 2003 l’esercito paramilitare ha rapito e torturato il figlio quindicenne di uno dei leader del sindacato ed ucciso il cognato del vicepresidente del SINALTRAINAL. Lo scorso gennaio, i dirigenti dell’impianto di Coca Cola di Bogotà, racconta Javier Correa, hanno tentato di far firmare ai lavoratori una dichiarazione in cui si sosteneva che la Coca Cola non viola i diritti umani; una settimana dopo il leader del sindacato ha ricevuto minacce di morte per sé e la sua famiglia.
“La Coca Cola ha una lunga storia alle spalle nel campo della violenza antisindacale” afferma Lesley Gill,, un professore di Antropologia all’ American University che è stato due volte in Colombia per documentare la violenza. Un’ indagine del 2004, diretta dal Consigliere Comunale di New York City Hiram Monserrate, ha documentato 179 “grosse violazioni dei diritti umani” contro i lavoratori della CocaCola, insieme a numerose accuse sul fatto che “la violenza dei paramilitari contro i lavoratori è stata fatta con la consapevolezza e sotto la probabile direzione dei manager dell’azienda.” La violenza ha fatto pagare un caro prezzo al sindacato. Negli scorsi 10 anni, gli iscritti al SINALTRAINAL tra gli impiegati della Coca Cola sono calati da 1400 a meno di 400.
I rappresentanti della Coca Cola negano il coinvolgimento dell'azienda o dei suoi partner nell'imbottigliamento, sostenendo che gli omicidi sono un sottoprodotto della guerra civile nel paese. Inoltre, la Coca Cola indica che è stata assolta in diversi casi dai tribunali colombiani. Servendosi di una legge Usa chiamata Alien Tort Claims Act, il ILRF e la United Steelworkers lo scorso anno a Miami hanno fatto causa alla Coca Cola e ai suoi imbottigliatori. Nel 2003 un giudice ha sentenziato che la Coca Cola non poteva essere ritenuta responsabile per le azioni dei suoi imbottigliatori e l’ha esclusa dal processo pur permettendo che la causa contro i suoi imbottigliatori andasse avanti. L'avvocato Terry Collingsworth dell’ ILRF ritiene questa decisione assurda, facendo notare che la Coca Cola ha partecipazioni nella proprietà dei suo imbottigliatori colombiani e ha accordi molto dettagliati sull’ imbottigliamento. “Sono sicuro al 100% che se la Coca Cola ad Atlanta ordinasse loro di cambiare il colore dell'uniforme dal rosso al blu, essi lo farebbero,” dice Collingsworth. “Avevamo bisogno di trovare in modo per cui la Coca Cola vedesse il ritardo in maniera negativa,” dice Collingsworth. Nel 2003 il SINALTRAINAL fece un appello per un boicottaggio internazionale dei prodotti della Coca Cola.
Rogers ha visto immediatamente la debolezza della Coca Cola: il suo marchio. “Sono proprio al vertice della classifica delle peggiori aziende al mondo, eppure hanno creato un'immagine simile a quella della torta alle mele,” ha detto. “Quando la gente pensa alla Coca Cola, dovrebbero pensare alle grandi difficoltà e alla disperazione di gente e comunità in tutto il mondo”. Sin dall'inizio, si è appropriato della scritta rossa del marchio di fabbrica della Coca Cola per fare il logo “Killer Coke”, e ha modificato le loro campagne pubblicitarie usando slogan come "The Drink That Represses" e "Murder--It's the Real Thing."
Prima ancora, Rogers aveva rifiutato l'appello di SINALTRAINAL per un boicottaggio da parte dei consumatori di prodotti Coca Cola, temendo che potesse essere inefficace e potesse alienare i sindacati che lavoravano con la Coca Cola. Egli si è focalizzato sul “tagliare fuori dei mercati” occupandosi dei maggiori legami istituzionali. Ha convinto diversi sindacati, incluso American Postal Workers, diversi grandi locali della Service Employees International, e UNISON, il più grande sindacato britannico, a bandire la Coca Cola dai loro servizi e dai loro edifici, e ha indotto i gestori dei fondi pensione, compresa la città di New York, a far passare risoluzioni che minacciassero di ritirare centinaia di milioni in investimenti azionari sulla Coca Cola a meno che essa non avesse indagato sugli abusi in Colombia. Ha persuaso non solo il SEIU ma il più grande sindacato Usa degli stessi impiegati della Coca Cola, il Teamsters, a far passare una risoluzione in appoggio alla Campaign to Stop Killer Coke [campagna per fermare la Coca Cola killer n.d.t.] e a parlarne allo scorso meeting annuale (il Teamsters è arrivato quasi a bandire la Coca Cola dai suoi uffici). “Ciò che sentiamo è orrendo,” dice David Laughton, il segretario e tesoriere della divisione bevande del sindacato.
Il più grande successo della campagna c'è stato nei college e nelle università. Le campagne contro la Coca Cola sono ormai attive in qualcosa come 130 università in tutto il mondo. “Questa campagna contro la Coca Cola ha politicizzato una nuova generazione di studenti,” dice Camilo Romero, un organizzatore nazionale con l’ USAS. Alla fine hanno ottenuto una chiusura a tempo indeterminato nel marzo 2004, sebbene il caso rimanga aperto presso l'Alta Corte del Kerala. Sempre maggiori proteste lì e in un terzo impianto, nello stato deserto del Rajasthan, sono finite in attacchi da parte della polizia, dei quali Amit Srivastava dell’ India Resource Center (IRC) dà la colpa alla Coca Cola, contro gli abitanti che adottavano tattiche Gandhiane di nonviolenza.
L’ IRC è stata raggiunta in questa missione da Corporate Accountability International (CAI), che ha attaccato la Coca Cola per il suo tentativo aggressivo di vendere acqua minerale. Da vecchio organizzatore di campagne anti-aziendali, Mulvey vede la campagna contro la Coca Cola come un nuovo modello. “La gente prende questi abusi che avvengono in tutto il mondo e li porta ai quartieri generali della Coca Cola,” afferma. “L'azienda non riesce a controllarlo,” afferma Rogers. Allo stesso tempo il grande numero di accuse contro la Coca Cola solleva la domanda di quando e come la campagna potrà dichiarare vittoria. La Campaign to Stop Killer Coke, per esempio, ha adottato sette richieste del SINALTRAINAL, che includono una politica di diritti umani per le aziende di imbottigliamento e risarcimenti per le famiglie dei lavoratori uccisi. Al meeting annuale dello scorso anno, la Coca Cola ha cercato di ammorbidire le critiche pubblicando i risultati di uno studio finanziato dall'azienda che è stato rifiutato dagli studenti come pateticamente di parte. Il tocco finale fu l'insistenza della Coca Cola che qualunque cosa venisse scoperta non potesse essere ammessa al processo di Miami, cosa che Collingsworth afferma essere contro l'etica legale. “Non possiamo pregiudicare i nostri clienti accettando di seppellire prove che potrebbero appoggiare le loro richieste,” ha scritto in una lettera piena di rabbia a Ed Potter della Coca Cola.
All’ incirca nello stesso periodo, nuove prove delle tattiche anti-sindacali della Coca Cola emergevano in Indonesia, dove, secondo l’ USAS, i lavoratori venivano minacciati quando tentavano di formare un sindacato; e in Turchia, dove più di 100 membri del sindacato furono licenziati e poi, durante una protesta, manganellati e fatti oggetto del lancio di gas lacrimogeni da parte della polizia. Lo scorso novembre l’ ILRF ha depositato un'altra denuncia contro la Coca Cola, basandosi sulle affermazioni dei lavoratori turchi.
Col fallimento della commissione investigativa, gli amministratori in alcune scuole hanno esaurito le scuse per mantenere i contratti con la coca-cola. Lo status della NYU di più grande università privata del paese ha fatto guadagnare alla campagna spazio sulla stampa nazionale e internazionale.
Con l'avvicinarsi del meeting annuale di quest'anno, la Coca Cola è andata sull'offensiva, annunciando un piano per redigere un nuovo elenco di standard per i luoghi di lavoro. Allo stesso tempo l'azienda ha chiesto all' International Labor Organization [ILO, organizzazione internazionale del lavoro n.d.t.] dell'Onu di eseguire una valutazione dei luoghi di lavoro negli impianti di imbottigliamento della Colombia. Le scuole che questa primavera hanno messo in discussione i contratti con la Coca Cola includevano la Michigan State, la UCLA, la University of Illinois, la DePaul e diversi campus della City University of New York. Dopo recenti vittorie nelle università la forza sembra stare dalla parte della campagna. “La Coca Cola ha un mercato in contrazione; noi abbiamo un mercato in espansione,” dice Rogers. “Io voglio che la Coca Cola capisca che hanno molto più da perdere nel continuare a fare ciò che fanno.
Fino a che non faranno ciò, affermano gli attivisti, la violenza contro i lavoratori della Coca Cola continuerà.
Potete leggere altri suoi articoli al sito MichaelBlanding.com.
13 settembre 2006
Perchè parlare di processo di privatizzazione anzichè di privatizzazioni?
Perchè il fenomeno mostra una chiara tendenza evolutiva: la corporate society – ossia la società retta dalle multinazionali – si sta dirigendo verso il corporate take over, la privatizzazione dello Stato. L’oggetto effettivo delle privatizzazioni non sono beni o imprese, ma le funzioni e i poteri dello Stato e del Pubblico.
Sul piano più superficiale le privatizzazioni sono operazioni patrimoniali con cui lo Stato (o altri enti pubblici) vendono beni propri, pubblici (immobili, quote azionarie), comperati o costruiti con i soldi dei cittadini, a soggetti privati, al fine di procurarsi denaro di cui dichiara di aver bisogno. Se il prezzo di vendita fosse vantaggioso e se lo Stato avesse veramente bisogno di far cassa, allora, almeno su questo piano, le privatizzazioni sarebbero logiche e opportune. Però i prezzi sono solitamente svantaggiosi e, nella realtà, lo Stato non ha bisogno di vendere per risanare i suoi conti, disponendo di ben altre risorse.
Tali operazioni di vendita sono sovente operazioni di svendita in favore di gruppi imprenditoriali che in cambio ‘sostengono’, in tutti i sensi, gli uomini e i gruppi politici che le eseguono.
Privatizzazioni di industrie strategiche
Vi sono grandi industrie pubbliche che hanno una funzione positiva, vitale, per una nazione, ben al di là dalla loro redditività in termini monetari, perchè possiedono la tecnologia, il personale, gli impianti e le dimensioni idonee per fare ricerca, per mantenere la competitività dell’intero sistema-paese nel mondo e una certa autonomia scientifico-tecnologica, permettendo allo Stato di non dipendere da altri paesi, anche in ambito politico e militare. Per capirci, la supremazia degli USA nel mondo è dovuta essenzialmente all’industria militare e alle ricadute tecnologiche (e imperialistiche) che ne conseguono: dall’informatica alla biologia, dall’aerospaziale allo spionaggio (Echelon).
La politica dei governi italiani si è rivolta alla cessione e allo smantellamento delle imprese di questo tipo, del loro potenziale scientifico-tecnologico e strategico. Le cessioni e gli smantellamenti sono andati a beneficio di gruppi non solo privati, ma anche e soprattutto stranieri. Oramai la grande industria nazionale, soprattutto quella capace di ricerca, non esiste quasi più, l’Italia è ridotta a colonia tecnologica ed economica dei suoi ‘alleati’: la grande distribuzione (seconda industria nazionale) è in mani tedesche e francesi, il mercato dell’automobile (terza industria nazionale) è all’80% coperto da produzione straniera, passando per la chimica e la cantieristica.
Perchè i politici italiani si prestano a siffatta operazione antinazionale?
Imprese mono-oligopolistiche: risorse limitate
In un mondo dove già la maggior parte delle risorse naturali è nelle mani di cartelli come l’Opec, lo Stato, anzi i politici, privatizzano anche imprese mono od oligopolistiche, soprattutto eroganti servizi vitali per la collettività: energia (Enel, presto Eni), trasporti (autostrade) telecomunicazioni. Sovente, queste imprese già ‘contengono’, o acquisiscono in seguito, la concessione dell’uso di risorse collettive limitate, come le bande di frequenza radio e le risorse idriche. Anche gli enti pubblici locali privatizzano le loro aziende di servizi (gas, trasporti, rifiuti, pompe funebri), oggi dette multiutilitiy.
La giustificazione addotta a queste operazioni è quella che la gestione privata consentirà risparmi di denaro pubblico e migliori servizi a minor costo (e prezzo) grazie alla concorrenza e alla logica aziendale. Non è esattamente questo, però, che abbiamo ottenuto. Anzi, mentre i conti degli enti pubblici interessati rimangono critici, vediamo molti servizi peggiorare qualitativamente e quantitativamente, a fronte di un rincaro di costi e tariffe.
Vediamo una crescente esterizzazione del capitale di queste società di diritto privato. Vediamo le nomine ai loro vertici sempre più legate al peggiore clientelismo, anzichè al merito. Vediamo il loro stile nei confronti del cittadino farsi sempre più elusivo e disattento nel dare, impositivo e aggressivo – quando non fraudolento – nel prendere. Quando, nel 2004, il Dollaro crollò sull’Euro di circa il 30% e scesero anche i prezzi dei combustibili, consentendo così il dimezzamento delle tariffe per gas ed elettricità, quante multiutilitiy fecero gli interessi dei cittadini e dell’economia nazionale, abbassando di conseguenza il costo di gas ed elettricità (costi che, notoriamente, in Italia sono altissimi e costituiscono una delle più gravi malattie dell’economia)? Dove andarono i grandi incrementi di profitti così realizzati? Forse nell’acquisto di mass media e di attività industriali e finanziarie, magari all’estero, nell’interesse dei dirigenti, degli amministratori e di coloro che li avevano messi su quelle poltrone. Forse in stipendi, prebende, consulenze d’oro, opere inutili appaltate a caro prezzo. E i mass media, in effetti, tacquero su questa scelta delle multiutilitiy privatizzate, contraria agli interessi della collettività dei cittadini, e contraria agli statuti di questi soggetti. Una scelta che non sarebbe stata possibile se invece di società di diritto privato avessimo avuto enti pubblici, regolati dal diritto pubblico.
Un salto di qualità: il privato impone le tasse
Stiamo assistendo a un interessante quanto allarmante fenomeno politico-economico: numerose società multiutilitiy di diritto privato, ma con partecipazione pubblica (del comune, della provincia), pretendono sempre più di farsi pagare non solo per i servizi che erogano effettivamente al cittadino (servizi perlopiù e a tariffa imposta, rispetto a cui il cittadino non ha alcuna facoltà di scelta o di negoziazione), ma persino per servizi non erogati – o meglio, esigono soldi indipendentemente dal servizio che realmente erogano. Queste società di diritto privato, che realizzano profitti (in proprio o a favore di soci e di terzi beneficiari politico-industriali), si servono del potere pubblico (il Comune, la Provincia) per imporre i loro servizi ai cittadini senza che questi possano contestare inadempimenti e inefficienze, o preferire altri appaltatori; poi, di nuovo, si servono di questi enti pubblici per farsi pagare anche per ciò che non fanno. E con ciò si fa un fondamentale salto giuridico, da tariffa a tassa: si passa dal pagamento di una tariffa per i servizi ricevuti da un soggetto privato che svolge un servizio pubblico, al pagamento di una tassa indipendente da ciò che questo soggetto fa. Il privato impone una tassa alla collettività con l’appoggio dell’ente pubblico che dovrebbe rappresentare e tutelare la collettività stessa (però magari il sindaco siede nel consiglio di amministrazioneノ).
Tutto questo è gravissimo, perchè implica che lo Stato, gli enti pubblici territoriali, stanno privatizzando non più semplici beni (come le case popolari), non più funzioni (come i servizi pubblici), ma lo stesso potere pubblico, la sovranità politica, nella quale rientra, appunto, il potere di imporre le tasse.
In simili vicende si riconosce la vera realtà delle cose: i politici, i pubblici amministratori e funzionari tendono diffusamente a venire eletti o nominati, e ad agire, nei loro ruoli pubblici, come mandatari di interessi economici privati. Va quindi rovesciata la prospettiva: non è che acquisiscano le loro cariche e poi vengano portati a fare certe cose, bensì vengono messi in condizione di accedere a quelle cariche in quanto faranno determinate operazioni.
La privatizzazione dell’esazione tributaria e contributiva
Già da parecchi anni, gli enti pubblici territoriali (recentemente anche l’Inps) e non territoriali hanno iniziato a cedere a società finanziarie private i propri crediti – sia quelli reali che quelli infondati o inventati – verso i cittadini e le imprese. Le società cessionarie anticipano in tutto o in parte gli importi dei crediti agli enti pubblici interessati: prestano loro soldi, fanno loro da banca monetizzando i loro supposti crediti, e poi si mettono a riscuotere i medesimi crediti, reali o irreali che siano. In effetti queste società concessionarie per la riscossione di tributi sono emanazioni di banche. Esse ricevono dallo Stato poteri privilegiati di esazione nei confronti dei cittadini e delle imprese, per costringerli a pagare. Poteri che i normali cittadini creditori assolutamente non hanno. L’ultimo e più clamoroso caso è quello delle così dette ganasce fiscali.
Il corporate take over*
Da quanto precede, emerge il disegno complessivo, il vero oggetto e lo scopo ultimo delle privatizzazioni: non tanto il trasferimento di ricchezze già esistenti dalla collettività a gruppi capitalistici privati; neanche il mero trasferimento di posizioni di rendita o comunque economicamente privilegiate; ma il trasferimento dei poteri politici dello Stato a mani private.
La Corporate society è una società, una nazione, organizzata dalle e intorno alle grandi società di capitali – le multinazionali – dominata dai loro valori e interessi. Esse, in quanto proprietarie o finanziatrici dei mass media, degli entertainment media, delle banche, dei centri di ricerca, delle società di servizi sono in grado di dirigere il paese, la sua cultura, la sua economia.
Corporate take over indica il processo per cui le grandi società gradualmente si sostituiscono allo Stato e alla pubblica amministrazione nella funzioni di questi ultimi: nella prestazione di servizi pubblici, nella costruzione di infrastrutture, nella gestione di problemi sociali ed ecologici. Assistiamo al principio inverso rispetto a quello delle partecipazioni pubbliche: invece dello Stato imprenditore, abbiamo l’Imprenditore stato.
Il capitale privato è indotto a fare ciò per migliorare le condizioni ambientali per il proprio profitto e per soppiantare lo Stato nelle funzioni sue proprie – funzioni che lo Stato non è più in grado di svolgere – onde sostituirsi gradualmente ad esso, col consenso dei cittadini, anche come gestore del potere politico reale.
Questo sta facendo la Banca d’Italia-BCE nei confronti dello Stato italiano. Forte della conquista del potere monetario – il quale, essendo un potere sovrano, compete allo Stato soltanto – la Banca d’Italia-BCE ricatta lo Stato con un semplice annuncio: se lo Stato non seguirà le sue indicazioni, i suoi titoli di debito pubblico non verranno più accettati per accedere al credito.
Marco Della Luna