Tutto sommato, a Günter Grass è andata bene. Potremmo definirlo il mancato incontro fatale tra due futuri premi Nobel. Se nell'aprile 1945, quando venne fatto prigioniero dagli americani, l'allora giovanissimo Waffen-SS si fosse imbattuto in Ernest Hemingway, probabilmente avrebbe fatto la misera fine di tanti suoi commilitoni. Tanti quanti? Centoventidue, almeno secondo i calcoli (veri o immaginari) dello scrittore americano. Tutti prigionieri di guerra tedeschi, disarmati. Crauti, come li definiva con disprezzo, che l'autore di Addio alle armi uccise, a suo dire provandoci gusto, durante l'anno nel quale accompagnò le truppe alleate come reporter di guerra.
Un'altra delle tante spacconerie di Hemingway? L'ennesima esagerazione di un uomo «larger than life», più grande della vita, appassionato di caccia grossa come di corride, patito delle armi e del pugilato, consumatore smodato di donne, alcol e sigari? Può darsi. E Rainer Schmitz non lo esclude neppure. Ma poiché carta canta, il giornalista tedesco ha voluto attirare l'attenzione su passaggi fin qui trascurati di alcune lettere dello scrittore, due di esse peraltro inedite in Germania. Appena uscito per i tipi di Eichborn, il suo libro Cosa è successo al teschio di Schiller? Tutto quello che non sapete sulla letteratura
è una raccolta ragionata e molto ben documentata di episodi, aneddoti e curiosità poco noti o del tutto sconosciuti su autori celebri.
Hemingway si unì (embedded, come si direbbe oggi) al 22esimo reggimento della IV Divisione di fanteria americana col grado di ufficiale. In realtà, non doveva soltanto raccontare le gesta degli alleati; in quel periodo infatti lavorava già anche per l'Oss, il servizio d'intelligence antesignano della Cia. Grazie alla sua perfetta conoscenza del francese, lo scrittore fu il governatore di fatto di Rambouillet, alle porte di Parigi, dove tranquillizzò la popolazione, gestì il villaggio e soprattutto interrogò centinaia di prigionieri tedeschi. «Qui è molto piacevole e divertente — scrisse nell'autunno del 1944 a Mary Welsh, che sarebbe diventata la sua quarta e ultima moglie —, molti morti, bottino tedesco, tante sparatorie e ogni tipo di battaglia».
La lettera incriminata, quella che secondo Schmitz non ha mai avuto l'attenzione che avrebbe meritato, è quella che Hemingway scrisse il 27 agosto 1949, quattro anni dopo la fine della guerra, al suo editore, Charles Scribner: «Una volta ho ucciso un crauto-SS particolarmente sfrontato. Al mio avvertimento, che l'avrei abbattuto se non rinunciava ai suoi propositi di fuga, il tipo aveva risposto: "Tu non mi ucciderai. Perché hai paura di farlo e appartieni a una razza di bastardi degenerati. Inoltre sarebbe in violazione della Convenzione di Ginevra". Ti sbagli, fratello, gli dissi. E sparai tre volte, mirando allo stomaco. Quando quello cadde piegando le ginocchia, gli sparai alla testa. Il cervello schizzò fuori dalla bocca o dal naso, credo».
Meno di un anno dopo, il 2 giugno 1950, l'autore di Per chi suona la campana torna a evocare la sua esperienza di guerra in una lettera ad Arthur Mizener, docente di letteratura alla Cornell University. È la corrispondenza dove tira il macabro bilancio della sua passione omicida: «Ho fatto i calcoli con molta cura e posso dire con precisione di averne uccisi 122». Uno di questi tedeschi, prosegue Hemingway, «era un giovane soldato che stava tentando di fuggire in bicicletta e che aveva all'incirca l'età di mio figlio Patrick». Questi era nato nel 1928, quindi la vittima doveva avere 16 o 17 anni. A Mizener, lo scrittore spiega di avergli «sparato alle spalle, con un M1». La pallottola, calibro 30, lo aveva colpito al fegato.
Questa lettera non era mai stata pubblicata prima d'ora in Germania. Nessun testimone si è mai appalesato, per confermare queste ammissioni di Hemingway. Inoltre, come ammette Schmitz, «nelle sue lettere il premio Nobel è sempre stato incline all'esagerazione, a nutrire il mito del suo machismo». Ma anche i suoi ammiratori concedono che durante la Seconda guerra mondiale egli abbia probabilmente violato la Convenzione di Ginevra. E soprattutto, si chiede l'autore, «perché quest'ammissione senza alcuna necessità?». Di certo, fa notare Schmitz, nessuno finora ha indagato seriamente negli archivi di guerra, per far luce su questo aspetto non marginale della vita di uno dei grandi della letteratura mondiale di ogni tempo.
Indizi sul fascino che l'atto di uccidere esercitasse su Hemingway se ne possono naturalmente trovare a iosa. «Mi piace sparare con un fucile, mi piace uccidere e l'Africa è il posto dove farlo», scrive nella primavera 1933 a Janet Flanner. Parlava sicuramente di animali, quelli abbattuti durante il safari di due mesi nello stesso anno, che poi avrebbe immortalato in Verdi colline d'Africa.
Ma più di ogni altro, si può ricordare l'attacco di un articolo a firma Ernest Hemingway apparso su Esquire nell'aprile 1936: «Certamente nessuna caccia è paragonabile alla caccia all'uomo e chi abbia cacciato uomini armati abbastanza a lungo e con piacere, dopo non si è mai interessato di null'altro».
Paolo Valentino
27 settembre 2006
Hemingway: ho ucciso con gioia!
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