Li hanno bloccati sul più bello. L'olio extra vergine pugliese, "quello tinto con la clorofilla... che è veleno ed è pure cancerogeno", ridevano per telefono, stava per sbarcare negli Stati Uniti. I container pronti, gli acquirenti già trovati: sono arrivati i carabinieri e hanno sequestrato tutto. Intanto però avevano già invaso i piccoli market di Milano e provincia. Ma anche molti negozi in Germania, Svizzera, e per rimanere in Italia, in Toscana, Liguria, Veneto. Il prossimo business era quello dell'Europa dell'est. In un anno e mezzo avevano messo già sul mercato 400 mila lattine di olio contraffatto, cattivo e pericoloso per la salute dell'uomo. "Ma in fondo, noi, mica spacciamo droga. Non facciamo niente di male", si rincuoravano tra loro.
Era una banda organizzata quella dell'olio alla clorofilla, un'"associazione a delinquere" esperta e specializzata, tanto che molti dei componenti sono riconducibili a famiglie della criminalità organizzata. È la mafia di Cerignola (la patria dei caporali del pomodoro), quella radicata nello spaccio di droga e nel commercio di auto rubate. Che, a qualche chilometro di distanza dalla centrale del vino adulterato, aveva messo mano sul grande business della sofisticazione alimentare. E piano piano stava avvelenando l'Italia. Tutti i giorni, a tavola, condendo l'insalata.
A scoprire la banda della 'Mercedes bianca' è stata la procura di Foggia insieme con i carabinieri del Nas di Bari: 39 arresti, quattro famiglie (Pedico, Errico, Sinerchia-Giannatempo e Merra) che, come fossero i mandamenti mafiosi, si erano divisi il territorio, ma condividevano i modi di operare, il business, le tecniche di avvelenamento. Taroccavano l'olio. Poi lo marchiavano con etichette di aziende inesistenti ma dal nome ammiccante (Il Frantoio, La Torre, Le gocce d'oro), con tanto di spiegazione altisonante sul retro ("È olio ottenuto mediante frangitura e sgocciolamento naturale a freddo di olive selezionate"). Lo imbottigliavano. E partendo dalla Puglia o dalla Campania lo caricavano su un furgone Mercedes bianco e con l'aiuto di compaesani emigrati al Nord invadevano i mini-market dell'hinterland milanese e di altre regioni nel Nord.
Il business era enorme: una lattina da cinque litri di olio taroccato costa all'associazione circa 5 euro (comprese le spese di trasporto, le etichette, i contenitori metallici in banda stagnata, i tappi e l'olio di semi). Da quel furgoncino bianco veniva scaricato e venduto nei market del nord Italia come "olio extravergine di oliva" a 20 euro. Il guadagno netto era di oltre il 400 per cento. In 18 mesi, da quando cioè i Nas coordinati dal pubblico ministero Giuseppe Gatti si sono messi sulle tracce della banda, sono state immesse sul mercato un centinaio di tonnellate di prodotto per un giro di affari di quasi 10 milioni di euro. Frutto, come spiega uno degli investigatori, di un marketing criminale: "Un tempo dal Sud arrivava olio sfuso, costava poco, ma era cattivo. Ora invece si truffano i consumatori sfruttando proprio il fatto che l'olio fosse doc, che arrivasse dagli uliveti pugliesi, che fosse fatto come un tempo". Avevano fatto le cose in grande, come si legge sulle etichette pirata: "L'olio prodotto prima del confezionamento viene conservato in recipienti a temperatura costante in assenza di luce e aria", tanto che "potrebbe formarsi un leggero deposito sul fondo. Ciò è dovuto a precipitazioni naturali che non pregiudicano, anzi denotano la genuinità del prodotto". Quel 'deposito sul fondo' in realtà poteva essere muffa. La banda utilizzava la clorofilla in garage lerci a San Ferdinando di Puglia, un paese a pochi chilometri da Foggia. Oppure acquistava "olio proveniente da organismi geneticamente modificati, olio la cui natura ed eventuale non tossicità sono ancora tutte da dimostrare", scrive il gip di Foggia, Lucia Navazio, che ha arrestato le 39 persone.
A leggere le carte, la Procura è arrivata appena in tempo. L'8 giugno 2007 i carabinieri del Nas sequestrano a Pietro Errico - considerato "il capo indiscusso del sodalizio delinquenziale" - 1.680 litri di olio alla clorofilla pronte a partire per gli Stati Uniti. Dicono gli investigatori che si trattava soltanto di un assaggio del nuovo, grande business: dopo aver invaso il nord Italia, aver cominciato a vendere in Svizzera e Germania, era l'America la nuova frontiera. Errico aveva contattato già l'intermediario per la vendita, preparato la prima partita. I container erano pronti all'imbarco quando sono intervenuti e hanno sequestrato tutto i Nas di Taranto, allertati dai colleghi baresi. Il business negli ultimi mesi stava crescendo, e parecchio. Per questo la banda aveva deciso di non fare più tutto in casa ma di rivolgersi a professionisti del settore per produrre etichette e bottiglie, per di più ditte campane. Era proprio dalla provincia di Napoli che partivano i camion Mercedes alla volta del Nord. Le sofisticazioni venivano realizzate però sempre e soltanto in Puglia; a coordinare le operazioni c'era sempre un componente della famiglia e a colorare l'olio provvedeva un gruppo di rumeni, assoldati e istruiti in mesi di addestramento. A volte sbagliavano, però. Tanto che l'estate scorsa un uomo pugliese dell'organizzazione si prese una bella 'cazziata' dai milanesi. Tanti rifornitori si stavano lamentando che "l'olio faceva schifo. Diglielo, altrimenti qua succede il casino. Dovete tagliarlo meglio", come urlava al telefono uno dei rivenditori, ascoltato dai carabinieri.
L'inchiesta nasce proprio da un errore di sofisticazione. Una serie di utenti segnalano ai Nas di Torino la presenza in commercio di olio cattivo. Vengono così ordinate alcune analisi e l'esito non lascia dubbi: non si trattava di extravergine, ma di olio di semi colorato. Le bottiglie sequestrate in Piemonte portano l'etichetta della Cooperativa Agricola Latorre di Andria. La cooperativa però non esiste. Da Torino viene così mandata un'informativa a Bari e gli uomini del comandante Antonio Citarella in due giorni riescono a risalire al centro si smistamento dell'olio taroccato: il 12 dicembre del 2006 sequestrano a Cerignola circa 30 mila etichette di varie aziende olearie inesistenti, tappi, cartoni per imballaggi, attrezzature varie, e 20 chili circa di sostanza scura, presumibilmente clorofilla. "Da quel momento abbiamo cominciato a risalire la piramide", raccontano gli investigatori: "Era come una matrioska, un sistema fittissimo di scatole cinesi: da un'etichetta arrivavamo a un'altra, indagando su un gruppo malavitoso risalivamo a un altro". "Un effetto devastante non soltanto sul piano del danno arrecato ai singoli destinatari del prodotto alimentare", spiega la giudice Navazio di Foggia: "Ma, se possibile, ancora di più all'immagine del mercato dell'olio extra vergine di oliva italiano. Hanno creato etichette ammiccanti per il consumatore per vendere e truffare meglio. Utilizzando il marchio del made in Italy è stata gravemente lesa l'immagine del mercato nazionale del settore, vista la ricerca di canali di commercializzazione del prodotto all'estero". Gli americani se ne facciano una ragione: per l'olio taroccato doc dovranno ancora aspettare un po'.
fonte: espresso.it
09 maggio 2008
Quando l'olio non sa di olio
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