12 luglio 2006

Le Rendite possono sostenere una repubblica?


La parola rendita non ha perso forza evocatrice. Certo, risale agli economisti classici della prima metà dell’ Ottocento, che la usavano per additare i guadagni più o meno leciti dei proprietari terrieri. Se si pronuncia oggi fa subito pensare ai film anni Settanta dei fratelli Taviani, di Vancini e Lorenzini sul Risorgimento tradito. E davanti agli occhi, subito scorrono i volti arcigni dei latifondisti e quelli smarriti dei soldati costretti a far fuoco su bianche folle di eroici contadini inermi. Immagini accompagnate dal suono assordante dei tamburelli di una Tarantella: un ritmo ripetitivo e travolgente, che nel buio del cinema, rimbomba nelle orecchie dello spettatore. Ah! “Quanto è bello lu murire acciso”…

Con una differenza di fondo però. I signori delle rendite non sono più i proprietari terrieri ma coloro che fruiscono di “interessi sui titoli di stato, gli affitti degli immobili, e le pensioni”.
Negli ultimi trentacinque anni in Italia il peso della quota di reddito spettante ai lavoratori dipendenti si sarebbe ridotta di circa un dieci per cento. Per contro sar
ebbe cresciuto di un importo più o meno pari quella delle rendite e dei profitti. E questo nonostante che il rapporto tra lavoratori dipendenti e indipendenti sia addirittura cresciuto a favore dei dipendenti. Si dirà, ma come può sopravvivere un’Italia senza il reddito prodotto dai lavoratori dipendenti? E soprattutto come fanno questi ultimi a vivere, visto che sono diventati addirittura di più? Grazie alle rendite.
L’Italia riesce a tirare avanti perché la sua ricchezza si è “patrimonializzata”. Le famiglie sono diventate più ricche, in particolare negli ultimi quindici anni: si possiedono più immobili e titoli azionari. E soprattutto, c’è sempre, anche se ridotta, la pensione percepita da uno dei membri della famiglia.
Ci sono sì in Italia, 13 milioni e mezzo circa di salariati nel settore privato la cui parte di prodotto cala e i cui redditi unitari pure. Vanno però ricompresi nel totale di 23 milioni di famiglie italiane che seguitano a incassare soprappiù di affitti, interessi, pensioni, stipendi statali. In Italia il criterio sociale per distinguere e capire, non è la classe ma la famiglia. E il problema è dunque valutare il flusso che continua, di rendite, posticini da professoressa o ai ministeri.

Certo, statali e professori qui insorgeranno, giacché stipendio e soddisfazioni lasciano a desiderare. Come i possessori di case vessati da Ici e altre tasse locali. Così pure i titolari di bot, sempre meno redditizi, come ammette lo stesso autore. E non hanno torto. E quel che è rimarchevole della sua analisi, è il dato macroeconomico: scende il lavoro produttivo, sale quello improduttivo, appesantito da rendite erogate a pensionati ancora cinquantenni (circa cinque milioni di pensionati su sedici). Ogni lavoratore mantiene quasi un pensionato e mezzo. E la forbice è destinata a crescere a danno dei lavoratori.
L’Italia, insomma, pur restando in qualche modo a galla, rischia di non crescere più e soprattutto di favorire forme parassitarie di consumo e lavoro improduttivo: un mix di pub, servizi legali e commerciali, turismo di massa e comparse televisive. Attività facilitate anche dalla ricerca imprenditoriale di profitti crescenti, in ambiti spesso speculativi. E non più nei settori manifatturiero e della ricerca: in calo il primo e in ritirata il secondo. Inoltre, la crescita dei profitti societari sarebbe stata favorita negli anni Novanta dai proventi delle privatizzazioni, finiti nelle tasche dei grandi oligopoli privati italiani. Profitti, definiti “post-sovietici”, per analogia con le privatizzazioni sovietiche, che con un colpo di bacchetta magica trasformarono i monopoli statali a quelli privati.

La “Repubblica delle Rendite”,
così almeno pare di capire, durerà fin quando reggerà il precario equilibrio tra gli italiani che riescono a vivere individualmente e un’ Italia che collettivamente riesce sopravvivere, ma sempre più fiaccamente… Anche perché la crescente globalizzazione rischia prima poi di mettere in crisi un accoppiamento così poco giudizioso.

Chi sono i colpevoli?
Le “sinistre e le consorterie sindacali”, colpevoli di aver fatto salire tra il 1996 e il 2001 la pressione fiscale su un lavoro, già impoverito; l’imprenditoria priva di coraggio e idee; la Banca Centrale Europea, che con i suoi bassi tassi di interesse ha favorito la speculazione mobiliare, e dunque il rafforzamento della rendita; l’ Euro, frutto di un cambio con la lira fuori proporzione, che ha ulteriormente impoverito il magro reddito del lavoro; i governi che non hanno tagliato le pensioni. E che dopo l’Euro hanno sprecato i proventi della riduzione dei tassi di interesse in rendite e costruzioni di cimiteri, parcheggi e stadi (il quarantasei per cento degli investimenti: un’ironia più che fondata…). Invece di trasferirle a salari e lavoro.
Non tutti amano ballare la tarantella, e per giunta sulla graticola di dati e cifre.
Frutto di un liberalismo sociale e intelligente, che non ha nulla a che vedere col volgare liberismo al servizio dei poteri di certi professori. Un liberismo antico, che spicca per originalità in un mondo intellettuale dove è fin troppo facile dichiararsi liberali e quel che è peggio liberisti.
Perciò, la tarantella , ad alcuni potrà pure non piacere, ma è la realtà attuale.

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