Siamo sottoposti a un bombardamento quotidiano di migliaia di messaggi pubblicitari che hanno ridotto lo spazio pubblico a un catalogo pubblicitario. Il budget mondiale del settore supera ormai i 500 miliardi di euro. Perché tanto denaro, tanto talento, tante energie sono consacrati alla pubblicità? Perché la crescita infinita è essenziale per l’economia capitalista.
Compito strategico della pubblicità è trasformare la propaganda industriale in voglia di consumare e così consentire l’attuale bulimia di merci. Fino a quella devastazione della società e della natura che è sotto gli occhi di tutti e che ha dato vita ai nuovi movimenti anti-pubblicitari e per la decrescita.
La pubblicità, arma del marketing, è l’arte di vendere qualsiasi cosa a chiunque e con qualsiasi mezzo. Passando attraverso la scappatoia dei media, essa costituisce l’archetipo della «comunicazione». La critica alla pubblicità si estende quindi alla critica contro il marketing e contro la comunicazione: questi tre flagelli compongono insieme il sistema pubblicitario. Non bisogna illudersi: la pubblicità è solo la punta dell’iceberg del sistema pubblicitario, ovvero di quell’oceano glaciale nel quale si sviluppa ed espande la società consumista con la sua crescita devastante.
L’effetto principale della pubblicità è la propagazione del consumismo. Il consumismo porta così alla devastazione del mondo, alla sua trasformazione in deserto materiale e spirituale: un ambiente dove sarà sempre più difficile vivere e sopravvivere in modo umano. La miseria umana della pubblicità è, dunque, sia questa vita impoverita che esalta una pubblicità onnipresente, sia la miseria degli ambienti pubblicitari stessi, che illustrano in modo caricaturale l’impoverimento morale di cui soffre la società mercantile. La pubblicità è indissolubilmente legata alla devastazione del mondo, di cui è uno dei motori. Solo coloro che identificano saggezza e acquiescenza, spirito critico e consenso mediatico, possono accontentarsi della denuncia dei suoi eccessi più flagranti.
Ma soltanto risalendo alle radici si potrà comprendere la ragione dei suoi abusi così ordinari, in particolare dell’estrema violenza che fa subire alle donne. Non meraviglia che essa ne abbia pervertito pericolosamente le logiche interne allorché è riuscita a metterle al servizio dell’accumulazione del capitale. Grazie alla sua azione, i media sono diventati macchine per far spendere, invece di diffondere il libero pensiero. Con l’avvento del mondo della comunicazione, essa ha spoliticizzato la politica e svuotato la democrazia della sua sostanza. Infine, impadronendosi della farmacopea, ha trasformato la medicina in sistema patogeno. Nel 1836 Émile de Girardin inaugura la pratica che fonda la stampa di massa moderna: introduce degli annunci a pagamento alla fine del giornale allo scopo di diminuirne il prezzo di vendita, quindi di accedere a un numero più ampio di lettori, quindi di attrarre più pubblicità e così via. Questa pratica si è generalizzata e oggi la maggior parte dei giornali dipende per il 50% dalla pubblicità, mentre alcuni vivono esclusivamente di pubblicità, come quei giornali «gratuiti» la cui funzione è esclusivamente di diffonderla presso un pubblico più vasto.
Ovviamente, i pubblicitari si felicitano per questa «associazione a scopo di lucro» in cui la pubblicità è il «partner dominante », in grado di «imporre il proprio linguaggio» e «parassitizzare» lo spazio dei giornali, ormai ridotti al ruolo di supporti pubblicitari. «La pubblicità, strombazza il direttore di ‘Le Monde’, è garante dell’indipendenza del giornale». Precisiamolo: di fronte ai poteri politici. La giornalista Florence Amalou spiega bene come la pubblicità possa diventare un mezzo di pressione, o meglio di repressione, nelle mani degli inserzionisti intenzionati a influenzare una linea editoriale: rappresaglie pubblicitarie (campagne annullate in seguito ad articoli troppo critici), boicottaggio dei nuovi titoli che si smarcano dal «pensiero unico» al servizio del padronato, giornalisti licenziati o messi alle corde dalle agenzie pubblicitarie, «limatura» o mutilazione dei loro articoli, che possono anche essere corretti o direttamente cestinati. L’interconnessione è totale: i media hanno bisogno della manna pubblicitaria, quest’ultima ha bisogno del canale mediatico per rivolgersi alle masse. Siamo giunti alla questione politica, e anche qui è la pubblicità che ha aperto dei varchi. La distinzione che, malgrado l’identità dei loro metodi, sussisteva tra pubblicità e propaganda si è andata sbiadendo. Al giorno d’oggi, i pubblicitari fanno «marketing politico» o «elettorale» e s’incaricano della propaganda dei partiti. La confusione delle categorie è giunta a un punto tale che i messaggi di propaganda politica inseriti a pagamento sono talvolta preceduti dalla menzione «pubblicità», mentre quelli della propaganda commerciale lo sono dall’indicazione «comunicato», normalmente riservata alle istituzioni pubbliche.
Questa prospettiva, che vede la politica passare dal dominio della convinzione a quello della seduzione, non incanta più di tanto i cittadini, tanto che in Francia vengono votate alcune leggi in materia. Immediatamente, la «comunicazione» si sostituisce alla pubblicità, troppo chiassosa. Jean-Pierre Raffarin, ex pubblicitario divenuto primo ministro, incarna questa convinzione: «La comunicazione pubblicitaria è divenuta per molti la soluzione a tutti i gravi problemi della società». Così vengono organizzate «riunioni Tupperware» per insegnare a piccoli gruppi di politici la demagogia del sorriso su misura; si ricorre al telemarketing, o alla pubblicità postale, per fare due chiacchiere con i cittadini; se poi ai politici è vietato comparire nei jingles pubblicitari delle catene televisive e radiofoniche, non per questo essi hanno perduto ogni speranza di ficcarcisi in qualche modo. La Guerra del Golfo, altamente spettacolarizzata, ha poi portato al culmine queste manipolazioni di massa. Nel Medio Evo, le decisioni politiche erano prese nei segreti arcani del potere: ciò che veniva concesso al popolo erano sfilate e feste in cui i potenti davano spettacolo di sé per accrescere il proprio prestigio. Ci si può indignare del «passaggio dalla democrazia rappresentativa alla democrazia consumista» annunciato da Séguéla, ma questo stravolgimento si limita a esacerbare fino al parossismo quelle insufficienze intrinseche alla democrazia rappresentativa, la quale non esige affatto l’impegno di ciascuno nella sfera politica, ma il suo esatto contrario. Lo spirito «progressista» ha la sua parte di responsabilità in questa deriva: ha disdegnato le tradizioni popolari di autogoverno locale e non ha dato prova di alcuna chiaroveggenza di fronte allo sviluppo industriale e mediatico, assimilandolo al Progresso e trascurando i suoi effetti nefasti sulle condizioni concrete del dibattito pubblico e della sovranità popolare.
Si sarebbe potuto sperare che simili pratiche declinassero con il progresso; al contrario, la pubblicità le ha esacerbate. In Francia, la vendita e la pubblicità diretta dei medicinali sono teoricamente limitate: in realtà lo sono sempre meno. Si parla spesso della carenza di personale medico negli ospedali. Un sistema pubblicitario efficace mira a fare di chi prescrive le ricette un braccio affidabile della tenaglia che stritola certi malati. Comunque, «fanno parte della nostra formazione», come dicono i più vecchi, in generale già ben formattati. Libri scritti dal «fior fiore della medicina», che ha acquisito notorietà grazie alle sovvenzioni di laboratori legati alle loro specializzazioni gli stessi che producono quei medicinali. Un esame più attento della spiegazione segnalava che questa prova «scientifica» era stata riscontrata… nella femmina del coniglio. Allorché i rappresentanti cessano di incentivare i medici, il volume dei medicinali prescritti nella zona geografica trascurata (sorvegliata con la complicità dei farmacisti e delle mutue) precipita. A questo fine, essi ricorrono a tutti gli stratagemmi del sistema pubblicitario, utilizzando le tattiche di comunicazione che si indirizzano direttamente alle masse per il tramite dei media. Ad esempio, un laboratorio propone degli ormoni per occuparsi della «menopausa maschile»; le sue pubblicità giocano sul desiderio degli uomini di «restare giovani» e di conservare tutta la loro libidine. Ma c’è da temere che il testosterone proposto comporti a lungo termine un drammatico aumento dell’incidenza del cancro alla prostata. L’ingegnosità dispiegata per massimizzare la redditività del triangolo medico-malato-laboratorio è terrificante. Il predominio dell’immagine sulla verità è un tratto indiscutibile della pubblicità, ma nel campo della salute è criminale, perché i medicinali sono potenzialmente delle vere e proprie mine antiuomo.
Coccolando l’illusione ossessiva della salute perfetta, della bellezza e della gioventù eterne, Big Farma ha creato di fatto delle nuove malattie.
Il cinismo dei laboratori trova l’eguale solo presso i loro venditori, che sacrificano coscientemente la nostra indipendenza, e anche la nostra vita, al Dio Profitto. Eppure sarebbe sbagliato e ingiusto imputare al solo sistema pubblicitario questa deriva del mondo della medicina. Gli «spettacolari progressi» della tecnica medica non solo non hanno contribuito granché all’aumento della speranza di vita, ma hanno avuto effetti nefasti non voluti o previsti dai medici. È infame per ciò che promuove: l’edonismo adulterato, il narcisismo delle apparenze mercantili, la non curanza e il disprezzo del passato che sta dietro alla beata nostalgia della «vera vita campestre». È infame soprattutto perché è un potente motore di quel consumismo e di quel produttivismo che sono all’origine del saccheggio della natura e delle società, al quale contribuisce in misura ancora maggiore mascherando la devastazione del mondo che ne consegue e che, malgrado tutto, salta agli occhi.
È indissolubilmente legata alla divisione del lavoro, alla concentrazione economica, al ruolo del denaro nella nostra società; in breve, al fatto cruciale che noi affidiamo alle grandi imprese, dietro pagamento, il diritto di occuparsi della nostra vita al nostro posto. Finché non ci confronteremo con l’infiltrazione del sistema mercantile fin nei più reconditi meandri dell’esistenza, lo stesso cambiamento sociale resterà un prodotto della propaganda delle marche. Abbiamo assistito ai primi passi di una politica della vita quotidiana; ma questa politica è subito divenuta un pupazzo nelle mani della controparte. Una volta che si sia presa coscienza del carattere devastante del sistema industriale, cosa si può fare per evitare di essere complici della sua espansione? Oggi è impossibile non fare compromessi, tenuto conto delle costrizioni implicite nelle nostre condizioni di vita. Non è infatti risibile scandalizzarsi della pubblicità e degli abusi del sistema industriale che vi fa ricorso, continuando nel frattempo a favorire l’espansione di entrambi con i propri atti di consumo?
Ma per comprendere il fenomeno pubblicitario, e pretendere di opporvisi, bisogna vedere più in là della dittatura del profitto e del produttivismo; o meglio, bisogna sforzarsi di coglierne tutte le manifestazioni concrete, comprese quelle che intaccano, a causa della venalità generalizzata e della logica della redditività, il nostro quadro di vita e l’esistenza che vi conduciamo. Una critica seria della pubblicità non può inoltre esimersi da una critica dei mass media e della stampa contemporanei, progressivamente divenuti una gigantesca pagina pubblicitaria. Come non può tralasciare una critica all’urbanismo e all’organizzazione moderna dello spazio, con le sue reti di trasporti peraltro tanto propizie al martellamento pubblicitario.
Intanto ha consentito di prendere le distanze dalle rivendicazioni corporative avanzate dalla maggior parte dei sindacati. Poi si è affrancata, quanto meno nei discorsi dei suoi promotori più conseguenti, dalle contraddizioni classiche della critica della pubblicità, quella che si adombra pudicamente per i metodi più scandalosi come la «persuasione occulta», continuando però a ripetere docilmente l’assunto delle nostre operose élite: «La crescita non è il problema ma la soluzione». Intendiamo denunciare con fermezza anche le altre illusioni di cui si nutrono le critiche ingenue della pubblicità. Allo stato attuale dei rapporti di forza, non c’è alcuna ragione perché la pubblicità arretri o fermi la sua avanzata. Non c’è alcuna ragione, ad esempio, perché i bambini delle scuole francesi sfuggano, quando sarà il momento, al trattamento pubblicitario shock che viene già somministrato ai loro coetanei negli Stati Uniti. La questione della pubblicità illustra in modo crudo quanto sia oggi difficile apportare dei miglioramenti a un aspetto particolare della vita sociale senza chiamarne in causa anche tutti gli altri. La pubblicità rappresenta perfettamente la vita che conduciamo! Il riflusso pubblicitario non potrà ovviamente risultare se non da un regresso della produzione mercantile e dall’emergere di altri rapporti sociali (dove sarà magari più consueto venire in aiuto dei propri vicini che accettare denaro per far installare un pannello pubblicitario in uno spazio di cui si è proprietari). Non potrà verificarsi se i rapporti di forza e l’organizzazione della vita non muteranno profondamente.
16 luglio 2006
Pubblicità: crescita o decrescita?
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